Ecofondamentalista. Riflessioni di un neo-contadino
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LA SCELTA NEO-CONTADINA

In sintesi…
Nell'idea di neo-contadino il “neo” è altrettanto importante di “contadino”. Non si tratta di tornare ad un passato mitizzato. Per la maggior parte delle persone oggi probabilmente non si potrebbe trattare neanche di esser contadini a tempo pieno o come unica attività.
Si tratta piuttosto di creare un argine alla piena della distruzione causata dall'avidità e dall'inconsapevolezza, di dare una brusca sterzata alla piega catastrofica che sta prendendo il mondo, di frapporre proprio noi stessi e il nostro corpo a queste forze terribili e non sacrificandoci, ma cominciando col salvare proprio noi stessi per primi.
Si tratta di basarsi sulla terra per questo confidando nella sua capacità, insieme al nostro lavoro, di darci molte delle cose che ci servono come sempre ha fatto con chi l'ha rispettata e di darci la capacità, insieme alla nostra attenzione, di trovare soddisfazione nel fatto basilare di vivere.
In una condizione alla portata di tutti, senza bisogno di essere individui speciali.
Crollate utopie e ideologie, circondati da un sistema che ha occupato tutti gli spazi, non abbiamo che da ripartire da noi stessi e da ciò che è basilare e basilarmente sano per renderci progressivamente autonomi, liberi. Non solo per l'autoproduzione di alcuni beni necessari, ma per produrre una “decolonizzazione dell'immaginario” e riuscire a vivere bene e meglio così, togliendo terreno al sistema distruttivo che non possiamo affrontare direttamente.
In questo testo cerco di descrivere quale penso sia il significato di una tale scelta e in cosa credo consista in pratica. Cerco
di mettere in fila alcune idee che mi sono fatto a partire da una trentina d'anni di esperienze nel tentativo di inventarmi - nel mio modo tra i tanti possibili - questa scelta neo-contadina ed alcuni contenuti teorici che mi hanno aiutato a non abbandonarla nonostante le difficoltà. Una scelta pacifica e piuttosto ritirata, è vero, ma nondimeno, a suo modo, militante.

(versione PDF)

PREMESSE
INTRODUZIONE
PERCHÉ LA SCELTA NEO-CONTADINA
CONSIDERAZIONI DI ORDINE “POLITICO”
IN PRATICA
ASPETTI “SPIRITUALI”



PREMESSE

In questo testo mi occupo specificamente di descrivere ciò che intendo per scelta di vita “neo-contadina” per cui accennerò solo occasionalmente ai presupposti di analisi della situazione attuale in generale che portano ad essa - analisi che cerco invece di svolgere in diversi altri scritti a cui rimando.
Parto invece dal presupposto, dato per acquisito dal lettore, che il sistema di vita consumistico è distruttivo a livello planetario e che occorre fin da subito realizzare concretamente delle alternative radicali.

Tengo anche a precisare che non intendo la vita neo-contadina come l'unico modo di vivere degno, né come quello che indistintamente tutti gli esseri umani dovrebbero seguire per permettere ad un sistema sociale di essere ecosostenibile.
Le vie che prende la Realtà per realizzare sé stessa sono tante e passano attraverso le vie che noi individui umani prendiamo per realizzare noi stessi. Quindi nessuno può dare giudizi in assoluto.
Ma neanche è indifferente quali scelte si facciano, né tutte sono altrettanto valide da un punto di vista generale: ognuno fa la sua, ed è giusto così. Di fatto si è anche liberi di fare quelle sbagliate per la generalità del mondo, basta sapere che il mondo pure è libero di farcene pagare le conseguenze.

La scelta neo-contadina che cerco qui di illustrare è una tra molte possibili.
È la mia: ne parlo perché la conosco.
Io non sono un politico, né un intellettuale intellettualista: credo che ci si debba limitare a proporre ciò che si fa e che si conosce per esperienza. Io nella mia vita ho scelto questa strada: sono andato in campagna ed ho cercato di realizzare questa scelta per quanto ho potuto.
Naturalmente c'è un'ampia gamma di modi in cui è possibile darle forma. Solo entro certi limiti però, all'infuori dei quali si tratta poi di tutt'altro.
E neppure, se parlo di questa scelta di vita, ne ignoro o misconosco altre né gli nego valore, dignità e rispetto (sebbene ce ne siano pure di quelle a cui li nego decisamente). Ad esempio, in ciò che dirò tutto parte dall'andare a vivere in campagna, ma sono ben conscio che la stragrande maggioranza delle persone vive in città. Io, in linea di principio, son convinto che le grandi città siano ecologicamente insostenibili in quanto tali e pertanto siano da abbandonare. Però sono anche ben cosciente che, data l'attuale condizione urbanizzata della società, sia realisticamente molto utile e prezioso il lavoro di coloro che, pur rimanendo in una dimensione cittadina, cercano di immaginare e di realizzare nuove forme e strategie (nei servizi, nell'architettura, nell'amministrazione ecc.. ecc….) in senso ecologista e, come si dice oggi, “decrescente”. Apprezzo sinceramente il loro impegno e le loro speranze. Anzi, ritengo che, con ogni realistica probabilità, dato il contesto attuale, saranno le loro indicazioni, molto più delle mie, a poter essere recepite e riuscire a svolgere un qualche ruolo storico. E so bene che non conta solo quanto un discorso sia giusto, ma anche quanto sia praticabile.
Però non è questa la dimensione mia: io dalla città sono andato via molto tempo fa e non conosco veramente la realtà cittadina né mi ci riconosco. Non saprei come si fa e in che misura sia possibile vivere ed organizzare le strutture in modo autenticamente ecosostenibile in una metropoli (e neanche posso nascondere un notevole scetticismo al riguardo).
Per cui mi limito a parlare secondo la prospettiva che ho scelto e che conosco e lascio ad altri ciò che (certamente ha un valore, ma che) non so.
Anche perché la mia prospettiva non è la Storia. Io intendo parlare all'interiorità di chi mi vuol leggere e che si chiede cosa fare della propria vita. Propongo una visione delle cose ed una pratica che vengono dalle mie esperienze e da ciò che ne ho tratto e che vorrebbero servire da spunto di riflessione per altri, anche per chi non seguirà la via che gli indico, ma che potrà, spero, chiedersi che cosa sto dicendo e fermarsi a pensarci un attimo, come è stato per me grazie a molte cose che ho letto, scritte da altri che mi hanno aiutato, ma che non tutti (ed anzi, nessuno fino in fondo) ho seguito.
La mia prospettiva non è la Storia, non perché la ignori, ma perché credo che la sua origine è dentro di noi e che, se le forme che vogliamo dare a questa sorgente sono storiche, ciò a cui vogliamo dar forma non lo è.
Tengo conto della realtà storica, ma credo che vogliamo vivere la nostra vita in modo degno qui ed ora. Io a questo riconosco un valore di sacralità. E in questa prospettiva cerco un'idea ed una pratica di vita che possa andar bene, che possa esser sana (armoniosa e non distruttiva, ma neppure astratta) a 360°, non solo per me ma a livello sociale, ambientale, cosmico, non solo qui ma anche altrove e non solo oggi, ma, nelle sue caratteristiche essenziali, in qualsiasi tempo. E che permetta ad un tempo in cui ci siamo anche noi umani, rimanendo effettivamente umani, di durare ancora molto molto a lungo.

In questo senso, la scelta neo-contadina (nelle sue varianti possibili) è, secondo me, quella più proponibile a livello di massa cioè dell' individuo medio, quella più “generalista” diciamo. Quella che potrebbe applicarsi alla maggior parte delle persone, lasciando spazio per molti adattamenti personali possibili e per ottenere soddisfazioni comunemente umane grazie a capacità comunemente umane. E che, anche se adottata da grandissime masse di individui, permetterebbe di vivere secondo ritmi naturali, sia a questi individui stessi, sia agli altri, sia alle varie società nel mondo, sia a tutte le altre forme di vita non umane, sia al pianeta nel suo insieme per un tempo indefinito.
Una scelta, inoltre, che migliora la vita individuale quanto quella sociale, agendo lentamente, ma radicalmente, e senza limiti di tempo né scadenze.

Se non intendo che tutti debbano fare i contadini o solo i contadini, però, questo vale soprattutto come discorso di principio. Nel senso che sarebbe pazzesco prendere una persona ed imporgli “tu devi fare il contadino”. Questo è ovvio.
Però dico certamente che tutti dovrebbero vivere in un modo ecosostenibile. E dico di più: che dovremmo preoccuparci di costruire una società, un sistema-società ecosostenibile. Quindi, anche se ci limitiamo ad occuparci direttamente della nostra vita e del nostro ambito personale, non dobbiamo perderne di vista le implicazioni e le, seppur piccole, ripercussioni in un'ottica molto più ampia.

Ora, questo pone la questione di un modello di società, ovvero di quale settore economico e quale modello culturale possano svolgere in essa un ruolo portante.
Perché ogni sistema umano ha un modello-settore produttivo portante. Questo è il volano e ciò che fa da riferimento per tutti gli altri, che determina il ritmo, la misura delle attività e dà forma all'economia ed alla cultura di una società.
È ovviamente anche il campo d'occupazione in cui è impiegata la grande maggioranza delle persone.
Ora, a me pare incontestabile che - escludendo scenari futuribili e abbastanza fantascientifici (comunque a lunghissima scadenza) in cui avessimo a disposizione una avanzatissima tecnologia del tutto sostenibile e diffusa a livello di massa in tutto il mondo - un sistema socio-economico-culturale veramente ecosostenibile, non possa essere altro che uno incentrato sull'agricoltura contadina, biologica e su piccola scala.(1)

Bisogna riconoscerlo una volta per tutte: non sarà sufficiente adottare altri tipi di consumi e di prodotti. Occorre una drastica riduzione, sia nella produzione che nel consumo: abbassare i livelli di ricchezza materiale. Questo è tassativo, soprattutto nei paesi cosidetti sviluppati dato che un certo ulteriore sviluppo da parte di quelli attualmente più poveri dovrà anche essere accettato.
Si tratta di una condizione imprescindibile per la salute e forse la sopravvivenza del pianeta vivente e la nostra al suo interno: non ha senso continuare a tergiversare intorno a questa evidenza!
La dimensione agricola su piccola scala è la sola che può dare, sostenibilmente, un sostentamento alla generalità di una popolazione, insieme ad una soddisfazione, ad un senso con cui vivere.

Allora, se il fatto che non tutti debbano fare i contadini né solo quello - e che comunque questa occupazione/stile di vita non possa essere imposta a nessuno - vale come principio di partenza, è altrettanto vero che, all'atto pratico, se vogliamo costruire questa speranza di società compatibile, è questo che in molti dobbiamo fare. Non può che essere una scelta, infatti. Molto diversa e molto più ampia rispetto ad “scelta politica”, ma non di meno una scelta militante.

In ogni società ci sarà sempre bisogno anche di molti altri tipi di occupazione. (2) Ed alcune di queste sono anche specialistiche: richiedono un'occupazione a tempo pieno che non si può portar avanti parallelamente a quella contadina. Per cui non è possibile immaginare un mondo di soli ed esclusivi contadini.
Ma per tutte le altre occupazioni basta una minoranza di persone, molto ridotta rispetto ad oggi, che comprenda solo chi ha quella che una volta si chiamava una “vocazione” per quel tipo di lavoro e che veda in primo luogo una soddisfazione ed anche un privilegio nel fatto stesso di farne la propria professione, senza che per questo debba ottenere alti guadagni o rendite di potere.
Sarebbe dunque auspicabile una selezione meritocratica severa per molti dei tipi di lavoro non agricolo, almeno se fatti a titolo professionale.
Essere un neo-contadino (d'ora in poi “n-c”) è invece una occupazione alla portata di tutti coloro che lo vogliano fare.

Ma nel contesto attuale, chi sceglie oggi di essere un n-c è sostanzialmente un'avanguardia di questa auspicabile società ecocompatibile perché sperimenta ed apre la strada nella sua vita alla possibilità dell'alternativa, che dovrà poi essere quella seguita dalla maggioranza delle persone per permettere strutturalmente (se mai davvero divenisse la scelta di molti) una autentica società sostenibile.


INTRODUZIONE

Nella scelta di vita neo-contadina (d'ora in poi n-c) la parola “neo-“ è altrettanto importante di “contadina”.
Voglio dire con questo che non si tratta di un ritorno al passato. Non si tratta necessariamente di vivere senza tutte le comodità tecnologiche moderne.
Ma senza alcune sì; senza accettare il prezzo di distruggere l'ambiente per averle sì; senza sfruttare altri popoli per poterle acquistare pagandole troppo poco sì; senza voler sistematicamente lasciare la fatica fisica della produzione primaria ad altri riconoscendo valore solo ad attività presunte “più elevate”, sì.
Si tratta precisamente di rinunciare alle comodità moderne (e non solo a quelle materiali), quanto più possibile, finché e nella misura in cui questi sono i prezzi da pagare per averle. Di rinunciarci, però, non solo di dire di essere contrari.

Neanche si tratta di illudersi di poter tornare ad una mentalità mitica, magica, pre-scientifica, patriarcale, figlia dell'ignoranza, della superstizione e di regole rigide, tradizioni immutabili e poteri indiscutibili. Non si tratta di imporre nulla a nessuno.
Si tratta piuttosto di rifiutare una fede acritica nella modernità e nel progresso, di non esser ciechi alla saggezza che anche c'era nelle religioni e descrizioni del mondo, negli stili di vita, nelle usanze e nei valori delle culture tradizionali e premoderne.
Si tratta di riacquistare in prima persona la propria autentica libertà sottraendola alla superstizione della Storia e riconoscendola nelle nostre radici naturali che si trovano nella terra, nel produrre e consumare il cibo, nell'abitare un luogo, nel viverci in relazione ad altre persone, nel farci nascere e crescere dei figli.
Si tratta di non aspettare più che una rivoluzione o anche solo una maturazione dell'opinione pubblica, grazie al presunto effetto risolutore dell'informazione, siano riusciti a cambiare il mondo, ma di cominciare a far nascere un modo di vivere nuovo dandogli forma nel nostro vivere in un altro modo.

Siccome sappiamo che in primo luogo non possiamo costruire una soluzione lavorando ad alimentare il problema, ovvero che non ci riprenderemo la nostra libertà né la nostra responsabilità se non distaccandoci radicalmente dai meccanismi e dalle strutture di cui vediamo la distruttività;
siccome cerchiamo un modo di vita radicalmente ecosostenibile e riproducibile da un numero di persone virtualmente infinito (non una vita ecosostenibile che possano fare solo pochi privilegiati);
vediamo in una vita in campagna che, per quanto possibile, viva della terra, la base migliore per renderci autonomi dal Sistema, che consideriamo l'attuale problema del mondo. E su questa base cerchiamo di costruire un tipo di esistenza alternativo ad esso a tutti i livelli sui quali si svolge la nostra vita, quindi sul piano economico, relazionale, sociale, culturale….

L'agricoltura contadina è l'attività dalla quale ripartire perché solo da questa può davvero nascere un nuovo inizio e perché cominciando dalla autoproduzione del cibo e l'autoorganizzazione dello spazio/ambiente di cui viviamo, possiamo creare una base di libertà che ci renda non-dipendenti dal Sistema che ci circonda. Una base che ci renda autonomi da questo sistema, certo non in modo totale, ma in misura apprezzabile, ampliabile, e che ci dia la percezione della possibilità concreta di questa autonomia. Una percezione crescente nel renderci conto che, pur perdendo molte delle facilitazioni garantite dall'aderire alle forme socioenomiche inventate dall'uomo moderno, abbiamo ancora un sostegno (ed una conferma) nella Natura. Essa ci mostra che la terra ci dà da mangiare, che c'è l'acqua da bere, che il nostro corpo e la nostra intelligenza hanno il potere di fare molto per produrre ciò che ci serve e che molte delle gioie che nella vita possiamo trovare non hanno bisogno dei soldi e del mercato.

L'agricoltura è l'attività originale, dalla quale dipendono tutte le altre. Tutto lo sviluppo di qualsiasi società si è costruito sulla base di essa, perfino quello delle società non agricole che hanno comunque avuto sempre bisogno dello sfruttamento di o del commercio con altre società che invece lo erano.
Potenzialmente il contadino può fare a meno di tutte le altre categorie sociali e professionali (almeno per le sue esigenze basilari - ma che non escludono neppure una certa produzione culturale) mentre queste hanno sempre bisogno del contadino per mangiare. Ma, alla lunga, non solo per mangiare, se ci accorgiamo che l'agricoltura industriale, dopo decenni di “rivoluzione verde” è finita per diventare uno dei maggiori fattori di distruzione ambientale, inquinamento dell'aria e delle acque, cambiamento climatico e perdita di qualità alimentare (anche senza considerare l'estrema minaccia di contaminazioni incontrollate che potrebbero riservarci gli OGM).

Se tutto l'attuale sistema economico e produttivo, socioassistenziale ecc… crollasse e si dovesse ricostruire da capo un modo di stare al mondo dopo una possibile catastrofe di enormi proporzioni, lo si dovrebbe fare inevitabilmente come contadini.
E dunque , anche senza (o prima) di una tale catastrofe, è da lì che bisogna partire se vogliamo costruire una società equa e sostenibile lasciandoci dietro una serie di meccanismi distruttivi che non sono sanabili dall'interno.
La dimensione di vita del contadino è l'unica che non ne presupponga un'altra per sussistere. È perciò da questa che bisogna ripartire per costruire un'alternativa integrale.

Questo non significa ignorare che il contadino tradizionale, come ancor più il n-c, vive molto meglio se può disporre anche di una certa tecnologia, apparati amministrativi, strutture mediche, scolastiche, trasporti, attività culturali e quant'altro. Questo è evidente. (3)
Ma lo è altrettanto che le società del passato, incentrate sull'agricoltura contadina praticata dalla gran maggioranza della loro popolazione, non erano del tutto prive di questo tipo di servizi e strutture. E ciò che più ci interessa è che a maggior ragione oggi, con le attuali conoscenze e tecnologie disponibili, potremmo avere tutte le comodità che ci sono veramente necessarie, anche in un sistema sociale molto meno “sviluppato” di quello attuale.

Certo, immaginare oggi un sistema così diverso è pura utopia e alle utopie non ci crediamo più. Già più volte la Storia ci ha insegnato a non fidarci delle rivoluzioni che (oltre al fatto di aver bisogno di qualcuno pronto a morire ed uccidere per farle) hanno spesso finito per generare dei mostri, ben diversi dai paradisi sognati.
Chi fa una scelta n-c non è uno che voglia perdersi in queste cose: non vuol sacrificare il tempo che gli è dato di vivere per ideali astratti che qualcun altro sfrutterà a suo vantaggio. Ma altrettanto non vuol rinunciare a vivere questo tempo nel modo che sente giusto e sano solo perché sa di non poterne vedere un generale riconoscimento ed affermazione nell'arco della propria vita.

Se un certo modo di vivere (sebbene declinabile in diverse varianti secondo i contesti geografici e storico-culturali) lo riconosciamo come giusto e sano rispetto al posto che l'essere umano ha nel pianeta, nella Natura, ciò vale sia per la nostra vita individuale, qui ed ora, sia per le società nel mondo e nel tempo. Non c'è una scadenza entro la quale la dimensione pratica propria di questo posto nel mondo debba aver dimostrato di esser “vincente” nella Storia. Semplicemente perché , se veramente quello è il posto che ci spetta, non c'è un limite temporale entro il quale ciò si debba affermare pubblicamente: lo dimostreranno i fatti, semmai. Né hanno senso concetti come “vincente” o “perdente” e neanche quello di “Storia”, quanto a questo.

Chi sceglie di essere un n-c non sta a guardare che oggi quasi nessuno si muova in questa direzione: il suo orizzonte non è né quello della Società, né della Cultura, né della Storia. Egli sta ritrovando il terreno in cui affondare le sue radici e non sono questi concetti troppo mobili e relativi che glielo possano restituire, ma la Natura, ed ancor più il suo rapporto con Essa, ovvero il rapporto umano con ed il posto umano in Essa, che è in primo luogo, e in luogo basilare, l'agricoltura contadina. (4)

Dunque, la scelta del n-c è una scelta di qualcuno che si riprende qui ed ora la propria libertà dalla Storia, ovvero, in questo senso, dalla superstizione moderna per la quale la forma che può prendere la nostra vita deve essere inevitabilmente legata alla corrente seguita dalla maggioranza, se non altro, per il fatto che siamo “animali sociali”.
Il valore di questa giustificazione rimane tutto da dimostrare, perché la dimensione che si addice alla nostra socialità naturale è quella della piccola comunità (familiare, tribale, locale), mentre applicare questo concetto alla Società - come quell'entità intermedia tra la Nazione e l'Umanità a cui ci riferiamo con questo termine, la cui dimensione è la Storia - è solo dovuto alla confusione derivante dall'uso di termini che hanno la stessa radice, ma che rimandano a piani di esperienza completamente diversi.
Tutti sappiamo infatti cosa significhi per noi la cerchia di amici, parenti, conoscenti: una realtà; mentre dopo circa due secoli dalla nascita di discipline di studio quali la Sociologia, l'Antropologia (ed altre derivate) e le stesse Storiografia e Filosofia della Storia, non sappiamo ricondurre altro che vaghi concetti astratti a questa ancora lontana (metaumana) idea di “Società”.

Possiamo dire dunque che il n-c non smette di essere un “animale sociale” per il solo fatto di fare una scelta di vita diversa dalla maggior parte dei suoi simili, ma che ha forse un diverso modo di praticare la propria libertà che, alla lunga, forse, diventa pure un diverso modo di concepirla.
La scelta di andare in campagna infatti (come di rimanerci se ci si è nati, ma in alternativa a molte altre possibili) può essere vissuta all'inizio anche come una via per sottrarsi a qualsiasi tipo di imposizione e condizionamento da fattori esterni a noi stessi, alla nostra libertà di decidere tutto della nostra vita.
Ben presto, nei fatti, ci accorgiamo che in campagna e come n-c, siamo condizionati da molte cose: dalle necessità materiali, tecniche, dalle condizioni atmosferiche, dalle stagioni, dai bisogni di piante ed animali, dal peso e la temperatura degli oggetti, dai tempi necessari a svolgere i lavori con i mezzi che abbiamo… Ci accorgiamo dunque che la nostra libertà viene ad essere in sostanza quella di preferire (rispetto ad altre possibili) la sottomissione ai vari fattori naturali; realtà fondamentali che, in quanto tali, riconosciamo, in ultima analisi, non altro da noi(5).

E' però significativo notare che, in questo senso, abbiamo sviluppato una consapevolezza (o un'idea se si preferisce), quanto a ciò che noi siamo e a cosa significa per noi “libertà” molto diversa sia da quella con cui eravamo partiti sia da quella generalmente accettata nella cultura moderna e contemporanea.
Significa che, dovendo/potendo scegliere, preferiamo sottostare ai ritmi naturali (che sono ben altro che bucolici o idilliaci, ma molto concreti e vitali) piuttosto che a padroni, datori di lavoro, superiori, clienti, mode, modelli e convenzioni sociali che invece molta gente accetta come indicatori delle linee guida della propria vita in cambio di quel denaro e quei beni di consumo al possesso dei quali affida la propria idea di libertà.
Un'idea di libertà, la loro, molto moderna e con ciò storicamente determinata, legata alle possibilità che la fase economica di sviluppo tuttora in corso (sebbene con forti scricchiolamenti da più parti) ancora ci permette di avere, ma il cui diritto, peraltro sconosciuto a tutt'oggi a moltissime persone sul pianeta, come si suol dire “non sta scritto da nessuna parte”. Soprattutto non sta scritto nella lista delle cose che il pianeta è in grado di sopportare da parte della generalità dell'umanità (dal che deriva che si tratta o di una libertà intrinsecamente competitiva, egoica, potenzialmente guerrafondaia ed accessibile solo ad alcuni o, in ultima analisi, la “libertà” di autodistruggersi).

La libertà che si impara (e, paradossalmente, che si accetta) nell'agricoltura contadina, invece è la libertà di un'attività eterna. Non solo perché è fatta di una serie di lavori che di anno in anno vanno ripetuti secondo il ciclo delle stagioni (sperando che le lasceremo continuare nel loro corso naturale), sempre uguali e sempre diversi senza fine di generazione in generazione, ma anche perché è un'attività di cui l'umanità potrebbe vivere sulla terra senza limiti di tempo (ovvero fino alla sua naturale estinzione per cause non autoindotte).
È un'attività sostenibile virtualmente senza scadenza finchè rimane all'interno di quelle caratteristiche essenziali ed oggettive che la rendono ciò che è: su piccola scala; con una parte significativa di lavoro fisico; con livelli di produzione/consumo non troppo eccedenti la sufficiente soddisfazione delle necessità autentiche; con sistemi di produzione e smaltimento ecocompatibili; generante una cultura che non ignora le nostre radici nella Natura e nelle sue “leggi” fondamentali di funzionamento.
Ma questo non implica che la dimensione contadina intesa in questo senso debba sempre presentarsi ed essere praticata nelle stesse forme. Come del resto sempre è stato nei diversi luoghi e contesti - pur adattandosi con mutamenti molto più lenti di quelli attuali - può esser vissuta in vari modi ed accompagnata da diverse sensibilità culturali.
È fuorviante, quando non anche una cosciente mistificazione, saperla immaginare solo come un ritorno a forme di vita proprie di un passato che non ci appartiene più o come se presupponesse necessariamente un'arretratezza e un'ignoranza che forse non c'erano in senso assoluto neanche prima e che comunque non ci sono oggi. Ed è anche un pò limitato al proprio orizzonte locale sviluppato dimenticare che forme di vita contadina persistono ancora ai nostri giorni per moltissime persone, non solo in altri paesi, ma anche qui, e che non tutti costoro se la passano così male, anche in un mondo che va da tutta un'altra parte (e sarebbe meglio chiedersi dove…).
Dunque, l'agricoltura, la dimensione di vita contadina oggi (e domani) può anche essere ciò che riusciremo (certo, non senza fatica) ad inventarci noi.

In una vita neo-contadina, nel senso che sto cercando di descrivere, non c'è bisogno necessariamente di essere agricoltori a tempo pieno: basta anche un orto, qualche albero da frutta, quattro galline; basta che il rapporto fisico/lavorativo con la natura abbia un ruolo anche parziale, purché economicamente significativo, nella nostra vita e che viviamo questo rapporto con una consapevolezza ecologica.
In realtà può essere più “neo-contadino” il musicista o l'infermiera che a casa curano un bell'orto e due arnie di api, ma hanno una coscienza civile ed ecologica che informa tutta la loro vita (specialmente quanto al livello di consumi), rispetto all'imprenditore agricolo che conduce la sua stalla modello dove le mucche non si muovono dai box e vengono nutrite solo a mangimi o che coltiva grandi estensioni a monocoltura in un'ottica di produzione industriale con prodotti chimici ed enormi mezzi meccanici.
Questi non sono contadini perché non hanno un rapporto contadino né con la terra, né con il cibo, né col loro lavoro.
Il neo-contadino (n-c), pur non volendosi negare programmaticamente alcune delle conquiste tecnologiche che oggi possono renderci la vita più facile di quanto non fosse quella dei contadini veri e propri (quelli di una volta, senza “neo-“), si ispira a questi e nutre verso di loro un profondissimo rispetto per la sostenibilità del loro stile di vita, dato dalle dimensioni ridotte, per la tenacia e la cura nel loro lavoro, date certo anche dalla necessità, e per la loro integrazione pratica e culturale all'interno dell'ambiente naturale e delle sue leggi, data se non altro dal fatto che tale ambiente era l'orizzonte della loro esperienza e conoscenza.
Si trattava certamente di una condizione di vita che aveva i suoi limiti e i suoi forti disagi (causati ancor più e prima che dall'ignoranza e dal ritardo tecnologico, dallo sfruttamento, dall'ordinamento socio-politico gerachizzato, dal latifondo e alla fine dall'oblio in cui lo Stato moderno ha lasciato le campagne favorendo l'urbanizzazione) dalla quale infatti non a caso moltissimi son stati costretti a fuggire.
I contadini di allora potevano non essere lì per propria scelta, ma questo non toglie che la funzione che svolgevano nel pianeta fosse perfettamente in armonia con esso: bisogna partire da un piano oggettivo/materiale nel valutare gli stili di vita e da lì costruire anche la condizione soggettiva.
Oggi abbiamo i mezzi per permetterci l'uno e l'altro piano in modo sano e sostenibile e la via per farlo è tornare a vivere in un modo e in un contesto ambientale che riparta idealmente da lì.
Oggi possiamo alleviare la durezza di quel tipo di vita grazie a molti attrezzi tecnologici che pure rimangono in limiti compatibili col rispetto dell'ambiente;
possiamo gestire la nostra vita sociale a partire dalla consapevolezza storica che violenza e sopraffazione non ci aiutano a vivere meglio;
possiamo trovare senso nel nostro muoverci, tuttora alla ricerca in questo vasto mondo, verso la nostra sempre inevitabile meta finale, senza ricorrere a superstizioni minacciose o consolatorie.
Esistono già forme di tecnologia leggera che, seppur diffuse su scala di massa, sono sopportabili per il pianeta. E certo molte altre se ne aggiungerebbero se un numero sufficiente di persone seguisse stili di vita tali da costituire un mercato interessante per chi volesse studiarne di nuove.
Se si usasse diffusamente il riciclo dei materiali e la scelta di risorse rinnovabili, la riparazione degli attrezzi e il loro uso per la durata possibile della loro funzionalità, senza comprarne sempre di nuovi quando i vecchi vanno ancora bene; se si consumasse energia con l'accortezza di evitare ogni spreco; se, in una parola, si fosse concretamente attenti al proprio impatto ambientale nei dettagli quotidiani della propria vita, si capirebbe che l'alternativa teorica che spesso viene posta tra l'attuale modello di sviluppo obbligatorio imperante e il dover tornare alle candele, al freddo e alla fame è solo una disonesta mistificazione. Una superstizione: la versione moderna del “pianto e stridore di denti” nelle rappresentazioni medievali dell'inferno - al quale oggi saremmo condannati come in-fedeli al dio Progresso e al suo veicolo con pilota automatico, la Storia; senz'altro indegni di un posto nel suo paradiso ad aria condizionata e foderato di bigliettoni.

Se ogni abitante del mondo vivesse ad un livello di consumi approssimativamente paragonabile a quello di una famiglia contadina benestante dei nostri anni '60 o di una di classe media del Terzo Mondo attuale e impiegando al meglio le conoscenze e tecnologie ecologiche odierne, ci sarebbe il sufficiente per tutti, nulla di necessario mancherebbe a nessuno e non saremmo minacciati da disastri ambientali, né dovremmo far estinguere decine di specie viventi ogni anno.
Insostenibili non sono i consumi quotidiani necessari ai bisogni basilari della nostra giornata, pur con molte delle comodità moderne ormai date per acquisite a livello di massa. Sono tutti i consumi superflui e tutta la struttura industriale necessaria per produrne in quantità immense continuamente di nuovi e in inutilmente sofisticati modelli, gadget e beni vari usa-e-getta a prezzi concorrenziali per venderne sempre di più.
L'economia non si regge sul necessario (nemmeno inteso in senso ampio), questo riguarda solo una piccola parte della produzione: tutto il sistema in cui viviamo si regge sul superfluo e sullo spreco.
È la corsa al profitto. È il sogno di successo e di ricchezza che ognuno nel suo piccolo e nel suo ambito persegue che ci portano a volere sempre di più. È l'incapacità ormai di saper rinunciare più ad alcunchè, nemmeno a ciò che neppure sappiamo come sia, ma lo vogliamo solo per averlo visto in tv o addosso a qualcuno.
È l'identificazione con l'oggetto-simbolo e la dipendenza cronica che ci fa pensare con terrore all'eventualità di dover per forza fare a meno di qualcosa a cui ormai siamo abituati. Anche se l'abitudine non è nemmeno al “qualcosa”, ma solo alla brama di averlo.

È, d'altra parte, la paura di dover fare delle scelte e di pagare per queste, di prenderci una responsabilità, la paura di cambiare, dell'ignoto e dell'insicurezza, del non esser capiti dagli altri che ci porta a credere subito a chi ci dice che una vera alternativa non è possibile. Come se non aspettassimo altro che una buona ragione per crederlo: non vogliamo dire no senza un motivo, ma nemmeno verificare se quel motivo è davvero valido.
Semmai preferiamo leggere, informarci sui danni della globalizzazione e sull'ultima denominazione di moda con cui si cerca ancora di spacciare l'ossimoro dello “sviluppo sostenibile”. Vogliamo sapere tutti i dati prima: non vorremmo certo abbandonare le sicurezze che ci sembra di avere per delle previsioni allarmistiche. E poi, cosa veramente potremmo fare?
Per questo accettiamo supinamente l'equazione: se una alternativa non è possibile in modo totale ed assoluto, senza compromessi qui ed ora, allora non lo è affatto.
“Se non puoi essere fuori dal sistema al 100% non puoi esserlo affatto e da questo punto di vista siamo e saremo sempre tutti uguali”.
Si vorrebbe far credere che non sia il caso neanche di prendere in considerazione il fatto che, come si costruiscono il presente ed il futuro praticando in una direzione, così si può fare anche in un'altra. Se le tendenze in atto sono la risultante dei comportamenti di tutti i componenti la popolazione, se ciò vale in una direzione, non dovrà valere anche nell'altra? Non è forse così che si crea la Storia?
Non aveva detto qualcuno che ne siamo noi gli artefici?

La costruzione n-c di una vita non compromessa col sistema distruttivo/inquinante/consumistico è radicale ed è reale proprio nella misura in cui avviene progressivamente qui ed ora nei limiti del possibile. Proprio perché non aspetta che qualcun altro abbia trovato una soluzione complessiva. Crea il suo spazio tra le maglie del sistema, negli spazi lasciati scoperti, dimenticati: va a vivere in zone marginali, recupera beni abbandonati, limita i propri bisogni a quelli reali, cerca altrove le proprie soddisfazioni, fuori dal mercato. Trova sostegno basilare nella terra che dà da mangiare e lo dava anche prima dell'invenzione del denaro.
Non sto dicendo che dobbiamo fare i sognatori, voler vivere senza denaro, ignorare che ci servono alcune macchine e alcuni attrezzi e che vogliamo pure goderci la vita un pochino. Dico che la situazione attuale del mondo è troppo complicata perché qualcuno trovi una soluzione complessiva e troppo grave per permetterci ancora di rimandare ciò che noi possiamo fare.
Dico che dobbiamo rimettere le cose nella giusta prospettiva: la base della nostra sussistenza non viene dal denaro e dal mercato globale, non dalla pubblicità e dalle mode, non dalle istituzioni e dalla cultura.
Tutto parte in realtà dalla Natura, di cui siamo parte e da lì dobbiamo ripartire, non a chiacchiere, non nell'arte e nella cultura (magari anche, perché no? Però non limitandosi a questo), ma concretamente, strutturalmente, cioè economicamente, fisicamente, nel rapporto con la terra come nostra base. Trovare conferma in essa che “un altro mondo è possibile”, che un altra qualità della vita è possibile, che un'altra visione della realtà è possibile.
Come fece il Buddha quando, raggiunta l'Illuminazione, toccò il terreno con la mano.

La terra ci dà cibo, aria, acqua e fuoco, ci dà un posto dove vivere che è un luogo, il nostro ambiente, un mondo in cui esprimerci, non uno spazio qualsiasi anonimo. E ci dà una misura di realtà: chi siamo e come funziona il nostro stare in questo mondo. Perfino un pezzo di terra abbandonata, quando cominciamo a lavorarlo, ad organizzarlo, pianificando le nostre colture e immaginandolo in prospettiva negli anni, quando cominciamo a trasformarlo fisicamente (e il fisicamente, come il trasformare, vale sia per noi che per il terreno) non è uno spazio anonimo, tutt'altro. Lo è invece un centro commerciale, che non ci apparterrà mai nemmeno se ci andiamo a guadagnarci il salario tutti i giorni e nemmeno se ne fossimo i proprietari - che poi, in quel caso, già staremmo altrove, dietro a qualche altro affare.

Questo è rimettere le cose in una giusta prospettiva. Poi viene tutto il resto.
E viene: non è che lo possiamo negare, né lo vogliamo ignorare. Ci sono molte cose di cui possiamo fare a meno, altre che desideriamo, ma capiamo che devono la loro esistenza al sistema a cui vogliamo togliere sostegno e non potrebbero essere prodotte né acquistate all'infuori di esso; altre ancora che semplicemente non ci possiamo permettere perché la nostra scelta di vita non ci dà soldi abbastanza, almeno per ora, e allora ci dobbiamo rinunciare. Dobbiamo allora farne un'occasione per capire quanto quella cosa è necessaria e perché davvero la vogliamo. Possiamo dover riconoscere che è una buona occasione per accorgerci quanto possiamo in realtà essere liberi dai nostri desideri, quanto si vive altrettanto bene senza molti dei loro oggetti. Oppure, se vediamo che si tratta di qualcosa di veramente necessario, sarà opportuno ammettere di dover aggiustare il tiro: che dobbiamo metterci in condizioni di avere quello che veramente ci serve pur mantenendoci il più possibile nei limiti di coerenza con la nostra scelta.
Come si fa? Cosa è davvero necessario e cosa non lo è? Cosa è davvero ecocompatibile e cosa proprio non può esserlo (e non solo da un punto di vista chimico, ma anche rispetto ai sistemi industriali, commerciali, ma anche di potere, di mentalità, di cultura che necessariamente presuppone)? Quale misura e quale tipo di superfluo ci fa star effettivamente bene? Quanto l'economia di questo mondo si regge sul superfluo? E qual'è l'origine di questa fame di beni superflui? Perché non ci si rinucia pur sapendo cosa c'è dietro e a quali conseguenze ci porterà continuando così?
E come facciamo a garantirci ciò che davvero ci serve pur rimanendo ecosostenibili? Quali lavori sono accettabili e quali no? In base a cosa?
Tutte queste domande insieme e tante altre che da queste possono derivare su come portare avanti la propria vita n-c fanno di questa un koan. Una di quelle domande zen alle quali non c'è una risposta meramente logica. Alle quali la risposta giusta mia può suonare diversa da quella giusta tua. Giuste entrambe. Ma alle quali non va affatto bene qualsiasi risposta: ce ne sono invece moltissime di sbagliate, molte più di quelle giuste. E a quelle giuste non ci si arriva senza praticarle. Si scava dentro una risposta giusta e ci si trovano via via tutti gli errori che contiene: continuare pazientemente quest'attività è la giustezza della risposta.
Se consideriamo la cosa solo in teoria, anzi, probabilmente di risposte ce ne sono solo di sbagliate: ed è questo che può non farci muovere, se vogliamo stare a fare gli intellettuali ed accontentarci di parlare e definire altri dei sognatori.
Ma la vera risposta c'è, ed è proprio il lungo lavoro che occorre fare dentro sé stessi mente/corpo per cercare di realizzarla creando la propria strada verso di essa. Perché il sistema che si regge sullo spreco e che convince così tanti a incatenarsi a ciò che non gli serve è dentro la nostra mente che trova il principale alimento.

Non cambieremo il mondo senza cambiare la nostra vita.
Ma il mondo ci schiaccerà o ci recupererà facilmente al suo gioco se con la nostra vita non cambieremo la nostra mente.
L'essere umano ha bisogno di un senso.
Allora trova la forza, l'energia, la motivazione per qualsiasi cosa. Oggi il senso ce lo vendono nella pubblicità, commerciale, politica o di modelli umani (sessuali essenzialmente - sempre parte del commercio). Noi lo compriamo a pacchetto, insieme ai prodotti. Poi, una volta tornati a casa, nella vita reale, apriamo la scatola e di senso non ne troviamo più. “No, non era in questo di prodotto evidentemente”; torniamo indietro e ne compriamo un altro e così via, così via e così anche con le persone, nei nostri rapporti, amori, relazioni e ideologie, sogni, aspirazioni….

Il n-c ha deciso di prodursi il suo cibo, almeno in parte, ed anche qualche altra cosa, almeno in parte. Ma non è solo questo.
Ha deciso di non comprare, almeno il meno possibile, di non collaborare con ciò che è dannoso. Ma non è solo questo.
Costruirà pian piano una parziale autoproduzione di base e poi una forma di reddito indipendente dal Sistema e su questa la sua forma di vita liberata e positiva fino, auspicabilmente, a diventare anche un esempio per altri che attesti nei fatti la possibilità di un'alternativa.
Ma non è detto che riesca fino in fondo in questo obiettivo e molte circostanze possono allungare i tempi e modificare le forme in cui perseguirà la sua strada.
Le circostanze della vita sono varie.
Ma il punto essenziale è quello di sottrarre il nostro appoggio al Sistema sia come produttori/lavoratori sia come consumatori. Togliergli il terreno da sotto i piedi: non esser noi il suo terreno.
Allora torniamo alla terra perché grazie a lei ce lo possiamo permettere. Sottraendoci, seppur solo parzialmente, ai meccanismi che regolano l'economia consumistica e che pervadono il mondo, a nostra volta abbiamo bisogno di un sostegno e di una forma di sostentamento per ricominciare da capo.
“Da capo” c'è la Natura e il nostro rapporto strutturale, organico, operativo con Essa, che è l'agricoltura contadina, grazie alla quale all'inizio sappiamo di non morire di fame e via via scopriamo quante altre cose possiamo produrci e costruirci, senza per questo rassegnarci alla menzogna dell'alternativa fittizia tra una totale integrazione e l' “Età della Pietra”.


Dentro a tutto questo è soprattutto il senso della vita che il neo-contadino deve prodursi da sé. Perché il mondo che lo circonda gira diversamente, rema contro, e lui di senso ne ha bisogno per esser forte, convinto.
Deve produrselo da sé, perché non te lo vende nessuno, e quelli che ti vendono sono delle gran fregature: non funzionano.
E ci vorrà un bel pò di lavoro e di fatica perché bisogna tener dietro a tante cose, all'interno e all'esterno.
Il n-c sarà sempre preso da attività fisiche, materiali, e gli potrà capitare di non trovare più il tempo per pensare al senso di ciò che fa. In realtà è proprio lungo il sentiero di queste occupazioni che fiorisce la pianta di questo senso, e man mano fiorisce sempre più rigogliosa, ma bisogna imparare a riconoscerla e all'inizio non ci si è abituati.
Ma bisogna non mollare, aprirsi la propria strada con coraggio senza perdere questo sentiero che non c'è: mantenervisi sopra in un equilibrio di coerenza relativa, quella possibile, la cui misura è data dalla propria onestà intellettuale. Un bene prezioso da non perdere. Ed una spada da tenere affilata. Per saper distinguere. E tagliare le menzogne alla radice. Specialmente quelle che raccontiamo a noi stessi.

C'è una bussola che non sbaglia e dice: “non perdere la direzione originaria, riconosci la realtà contingente, fai il possibile e non raccontarti palle”.
A forza di continuare il cammino, ed accettarne ugualmente la fatica e la gioia, il senso si trova.
Non perché si riesca ad “autoprodursi” anche questo. Non si può.
Ma perché c'è: il senso della tua vita, che ti porta avanti, non lo produci tu. È nella Vita stessa. Ma la Vita non è un concetto e non è una creazione umana. Ha un senso che non troveremo andandolo a cercare.
Ed è questo che toccava il Buddha con la mano sulla terra.




PERCHÉ LA SCELTA NEO-CONTADINA

Il Sistema attuale capitalista avanzato/consumista, eco/sociodistruttivo non è recuperabile dall'interno: è strutturalmente votato alla catastrofe.
Non è possibile né opportuno combatterlo e sconfiggerlo militarmente, né è sufficiente, coerente, efficace, combatterlo puramente su un piano culturale/di informazione continuando nei fatti ad alimentarlo con la nostra vita sul piano economico/materiale strutturale. Cultura e informazione sono, sì, aspetti importanti che non possono essere ignorati, ma alla fine un'alternativa dovrà essere praticata concretamente e sarà solo quello che potrà, al “dunque”, cambiare le cose. È assolutamente necessario cominciare a realizzarla nei fatti in prima persona.
Bisogna avere il coraggio della “povertà di spirito” (nel senso evangelico del termine): tagliare le chiacchiere e cominciare a fare qualcosa di radicalmente concreto. Non stare a sentire chi dice “non è così semplice”, “non si può risolvere tutto così” ecc… Non si risolverà certo tutto così, senz'altro. Ma sarà anche sempre meglio che star a disquisire e rimarcare “distinguo” o immaginare scenari futuri all'ultima moda mentre si continua ad alimentare nelle piccole cose della propria vita il disastro incombente.
Diciamo pure la verità: quanti brillanti intellettuali ecologisti, attivisti di sinistra, politicamente corretti e quant'altro, se (per pura ipotesi) anche sapessero con certezza matematica che bisogna vestire tute da lavoro e zappare, accontentarsi di passare le serate davanti al camino, come unica possibilità per salvare il pianeta, semplicemente lo farebbero e quanti invece troverebbero infiniti argomenti giustificativi per mantenere la gratificazione che gli dà il loro status ed allontanare il momento di comportarsi secondo quanto coerentemente dovrebbe discendere da ciò che dicono?

Allo stesso modo non è neppure il caso di stare ancora a sentire chi dice che andando in campagna ci si sottrae alle proprie responsabilità verso la società o l'umanità o comunque i propri simili in senso ampio. Vale un discorso analogo: molti di coloro che oppongono questa obiezione chiamano “lottare” il loro puro e semplice esprimere opinioni, peraltro in un contesto democratico in cui questa è una facoltà del tutto priva di rischi. Spesso neanche ci si accorge che nella storia contemporanea, alla progressiva tolleranza del potere per le posizioni politico-culturali anche le più eccentriche, è andato di pari passo lo scivolamento del piano sul quale si prendono le vere decisioni che contano, dalla politica all'economia (materia riservata agli specialisti) e, per quanto concerne l'aspetto che più riguarda il popolo, dalla partecipazione democratica alle tendenze nel consumo. In questo contesto si possono tranquillamente manifestare pubblicamente le prese di posizione più eterodosse: servono a suscitare applausi o fischi (buoni entrambi per l'audience) nei talk show televisivi, tanto, a parte un po' di colore, che ci sta sempre bene (nella migliore tradizione del panem et circenses), lasciano esattamente il tempo che trovano. Perché di parole, opinioni, informazioni ne abbiamo così tante che non è più lì che prendono forma le cose.
Il neo-contadino (n-c), invece, ben lungi dal voler ignorare il proprio coinvolgimento nel percorso umano su questa Terra, si prende, a ben vedere, la responsabilità suprema, perché dedica tutta la propria vita, non solo nel tempo, ma nella molteplicità degli aspetti, a realizzare concretamente una soluzione alternativa sperimentandone su di sé la praticabilità nel contesto dato in cui si trova. Senza aspettare “il sol dell'avvenire”.
La differenza però, dal suo punto di vista, è che oggi le vere questioni all'ordine del giorno non sono quelle correntemente presenti nelle notizie d'attualità o nel quotidiano dibattito politico e culturale rispetto alle quali ha un interesse molto relativo. Il passaggio storico nel quale ci troviamo coinvolge fenomeni di una tale portata che mettono all'ordine del giorno né più né meno che alcune tra le domande da sempre fondamentali per l'umanità, ovvero quelle che riguardano il nostro posto sulla Terra ed il senso del nostro vivere. Noi siamo di fronte alla possibilità reale di stravolgimenti climatico-ambientali (con tutte le conseguenze sociali, sanitarie, economiche, belliche ecc…) epocali e stiamo normalmente a discutere di banalità, pettegolezzi o quantomeno argomenti molto secondari. Ciò dipende probabilmente dal fatto che su questi troviamo il modo di esercitarci dialetticamente e fare la nostra figura, mentre davanti a ciò che davvero incombe su di noi non sappiamo cosa dire. Al punto che preferiamo non parlarne. Al massimo come informazione, interpretazione di dati, sì. Ma sul perché andiamo avanti spediti pur sapendo verso quale disastro stiamo correndo?
La vera questione all'ordine del giorno oggi è proprio l'assenza delle questioni di fondo che pure sono qui davanti ai nostri occhi, appena velate dai fatti in cui ci si mostrano, dal dibattito, dalla discussione tra le persone, dalle motivazioni che ispirano i nostri sforzi.
Corriamo in una automobile che sfreccia verso il precipizio e stiamo discutendo di che marca è migliore la benzina o se ci piace più il modello coupé o la berlina. Possibile a nessuno venga in mente di frenare, tirare il freno a mano, spegnere il motore e chiedersi un momento dove stiamo andando e perché?
Se ha un qualche senso parlare di “fine della Storia” non è certo a causa delle elucubrazioni di Fukuyama, ma perché, con ogni evidenza, oggi l'essere umano si sta dimostrando un bambino che gioca con una bomba, e una bomba più grande di lui. E' perché è arrivato il momento di tirare le fila della Storia, prima che sia troppo tardi: capire veramente cosa ci muove, capire veramente dove stiamo andando e perché. Agli dèi e agli ideali non ci crediamo più. Bene; ma non è il caso di continuare a trastullarci con i loro surrogati né di annegare in un nichilismo non dichiarato per non voler fare i conti con noi stessi ed il percorso che ci ha portato fino a qui.

Se il n-c si sottrae alle schermaglie politiche d'attualità, ciò è precisamente rivendicato, perché oggi è il momento di interrogarsi e praticare, sperimentare soluzioni, sulle questioni di fondo. Come possiamo trovare il modo di viverci bene su questo pianeta. Bene per noi e per gli altri e per il pianeta stesso. C'è qualcuno che lo può insegnare? Forse sarà bene che cerchiamo di trovarne il modo noi, direttamente, perché le menti più raffinate preferiscono discuterne - e del resto non hanno mica studiato tanto per poi mettersi a zappare!
Non è che io voglia sminuire l'importanza del ragionare sulle cose né del conoscerle: non starei a scrivere tutte queste cose forse anche noiose se fosse così. Dico solo che bisogna anche agire. Anzi, prima agire, e poi parlarne.

Allora, non è un male se l'agire del n-c si svolge fuori dalla mischia, in zone “marginali”, di campagna: lì non verrà notato e il nuovo sistema di vita che costruirà avrà il tempo di crescere indisturbato, prenderà piede e metterà radici come il germe di un'economia autoprodotta. Così non sarà più solo “ai margini”, ma sarà proprio dal di fuori del Sistema che continuerà a costruire una realtà di cui si potranno vedere le caratteristiche, in certa misura, oggettivamente diverse dal mondo che la circonda.
Da questo “fuori” il n-c aspetta il momento in cui il Sistema crollerà da sé. Oppure in cui si accorgerà di dover fare una metamorfosi, se si vorrà salvare. Questa metamorfosi avviene attraverso una serie numerosissima di scelte individuali che sono già qualcos'altro mentre sono ancora parte di ciò che c'era prima.
E' il processo naturale con cui avviene l'evoluzione delle specie, come quando un bruco diventa una farfalla. Ed è il processo che compie man mano il n-c e, attraverso molti come lui, forse la società stessa potrebbe farlo.

Indubbiamente durante l'evoluzione molte specie anche si estinguono, e non c'è il lieto fine assicurato per nessuno (neanche per i più forti). Ma una cosa è certa: quando il bruco sente il momento di trasformarsi in farfalla, che quello è ciò che va fatto, non si mette lì a distinguere se è opportuno, se è realistico, se progressista, da conservatori o utopistico ecc… ecc… Si mette lì e realizza la sua trasformazione. E, se la sua intuizione è stata corretta, tutta la Natura lo sostiene.
Questo non vale solo per il bruco attuale, risultato di milleni di un processo metamorfosale collaudato, ma anche per quei “proto-bruchi” che per primi hanno sentito di rispondere alle condizioni ambientali in questo strano modo. Hanno cominciato a mettersi lì e costruirsi il bozzolo: l'hanno semplicemente fatto. E continuando per alcune generazioni hanno realizzato su sé stessi una nuova forma del vivere, che funziona bene nel contesto del pianeta, tanto che ancora i loro discendenti vivono così. Non credo che quei primi bruchi avessero un programma chiaro di ciò che andavano a fare: hanno solo sentito chiaramente che ciò andava fatto in quel momento e semplicemente l'hanno fatto. Non è che avessero lo scopo di diventare farfalle: ci sono diventati rispondendo alla situazione.

La nostra vita è qui ed ora: non dobbiamo sacrificarla in nome di qualche ideale astratto o in vista di un domani teorico. La via per la quale togliamo sostegno al Sistema, la nostra soluzione sul piano politico, deve essere anche la nostra via di salvezza sul piano esistenziale, deve restituirci senso nell'atto stesso del percorrerla. E deve rendere le nostre personali vite più degne di essere vissute per come noi stessi le percepiamo. La nostra vita è inoltre tutto ciò che abbiamo come individui ed è la nostra autentica realtà vissuta: è a partire da questa che possiamo fare qualcosa di concreto, di percepibile, di verificabile.
La strada per la quale possiamo costruire una soluzione sia per noi stessi come singoli/famiglie/piccoli gruppi che per la società in generale deve viaggiare sul piano degli elementi basilari, costituenti iniziali, della società ovvero ancora su la nostra vita come individui in primo luogo e poi nell'ambito della cerchia di relazioni alla nostra diretta portata. Si tratta necessariamente di una portata molto limitata, ma è altresì quella che ci dà una misura di realismo e di realtà, all'interno della quale ben vediamo come le chiacchere stiano a zero. Qualcosa di percepibile, che ci dà il passo al quale dobbiamo camminare, lento, ma possibile, che ci mostra pure che pian piano andiamo avanti. E che anche ci permette di mostrare qualcosa di concreto agli altri; qualcosa di vissuto e di praticabile.

Lo stile di vita da seguire deve essere tale che, se per pura ipotesi teorica tutti vivessero così, possiamo immaginare che ci sarebbe da vivere dignitosamente bene per ognuno ed il pianeta e la natura, così come la conosciamo oggi, potrebbe continuare a vivere senza traumi per un tempo indefinito.
Questo è un buon metro di giudizio di massima per valutare quello che stiamo facendo ed anche quale sia un livello accettabile di tecnologia (e ricambio di attrezzi tecnologici) e di consumi.

Un sistema di vita che corrisponda a questi requisiti - certo non il solo che abbia umanamente dignità e valore, non è di questo che si sta parlando - forse l'unico che davvero ci rientra del tutto, è certamente quello che si incentra sull'agricoltura contadina, agricoltura di sussistenza o comunque di piccola scala. Non a caso il sistema di vita col quale la gran parte dell'umanità ha sempre vissuto(6) e con cui vive anche oggi in realtà, se consideriamo la totalità del mondo, ed è probabilmente per questo che ancora il pianeta riesce a sopportarci. Già oggi non potrebbe più essere così se tutti gli umani fossero passati alla modernità industriale/consumistica.

Sebbene si possano immaginare altri stili di vita o tipi di sostentamento che non siano quello contadino anch'essi ecocompatibili (per esempio quelli basati sulle produzioni artistico-culturali o artigianali o di tipo ascetico-filosofico-religioso), questi lo sono solo se limitati a più o meno piccole minoranze di individui all'interno di una società. Ma nessuna società nel suo complesso può sussistere vivendo o incentrandosi su queste basi.
Queste minoranze specializzate hanno bisogno di coloro che gli forniscano ciò che non producono e che gli è invece basilarmente necessario, tanto che non potrebbero vivere senza, mentre ciò che esse danno in cambio non lo è altrettanto. Un contadino può anche, nel tempo libero, suonare o dipingere, ma chi è professionalmente artista non produce il proprio cibo. Una società (ma oggi come oggi bisogna parlare di umanità dato che l'economia è globalizzata ed il suo impatto ambientale avviene su scala planetaria), o una parte considerevole di essa, che volesse trarre il proprio sostentamento solo dall'arte o dalla cultura, avrebbe necessariamente bisogno di un'altra parte, pure considerevole, che dovrebbe fare in misura maggiore tutti i lavori fisici atti a soddisfare i bisogni materiali della prima. Questa si troverebbe così a essere dominante e sfruttatrice per il tempo che sottrae all'altra se non anche per il denaro: la parte sfruttata rimarrebbe confinata nell'ambito del proprio ruolo di lavoro fisico e non potrebbe accedere alle produzioni della parte “culturale” neppure in modo passivo. Ne seguirebbe un distacco sempre più netto delle due parti, che finirebbero per ruotare ognuna dentro al proprio mondo, per quanto bene il lavoro fisico possa venir pagato.
A questo va aggiunto che, se si volesse alleviare significativamente la fatica fisica di questa massa di lavoratori ed attuare uno spostamento crescente di persone verso occupazioni più culturali, sarebbe allora tutto l'ambiente naturale a non poterlo sopportare dato l'enorme impiego di macchine ed energia che sarebbe necessario.

Consideriamo dunque le cose a livello di massa: pensando ad uno stile di vita/occupazione lavorativa che possa essere ecosotenibile nel senso detto sopra anche se esteso a livello della generalità degli individui di una società, questo è solo quello contadino (e non genericamente “agricolo”, ma contadino, cioè su piccola scala - ed, ovviamente, biologico). Va da sé, come già detto, che questo non significa pensare che una società dovrebbe, né potrebbe, essere composta esclusivamente da contadini al 100%, questo è chiaro. Ma una società è agricola (come anche industriale, o di terziario avanzato, o pastorale-nomade, o neo-contadina) quando la grande maggioranza, la generalità delle persone vive nel modo corrispondente al modello produttivo che la caratterizza o in modo variamente influenzato da questo e quando, di conseguenza, tale è il settore economico portante per questa società. Settore che dà anche l'impronta al modello culturale.
Ciò significa altresì che tale stile di vita si pone come quello più comune, più normale, alla portata di tutti, attraverso il quale la maggioranza degli individui possono vivere di occupazioni condivise e riconosciute come normali, cercandovi soddisfazioni normali mettendo a frutto capacità ed aspirazioni normali, dove per “normale” si intende ciò che è comunemente diffuso nella considerazione e nelle aspettative delle persone.




CONSIDERAZIONI DI ORDINE “POLITICO”

Oggi ci troviamo in bilico tra la stringente necessità di una visione ampia che ci restituisca un orientamento negli immensi problemi che abbiamo creato - ed ai quali è urgente immaginare una soluzione praticabile - e il profondo disincanto per ogni ideologia, utopia o valore per le quali si debba pagare un prezzo. Abbiamo riparazioni da fare al più presto, ma non gli strumenti per farle.
Non ci mancano le ragioni per non fidarci di quelli che abbiamo: ci hanno creato già grossi problemi e senza lasciarci poi meglio di prima.
Il capitalismo ha vinto la sfida storica del Novecento e qualcuno crede perfino (con Fukuyama ed i neo-con della destra americana) che questo fosse il passaggio definitivo e che ciò che segue non sia altro che un ribadire ovunque nel mondo questa vittoria. Che ci vogliamo fare? Forse è perché gli Americani hanno una storia così breve alle spalle che ne rierscono a immaginare solo un breve tratto anche in avanti. Ma ciò che certamente ci fa temere un futuro che potrebbe essere breve è proprio questa affermazione planetaria del sistema capitalista nella sua presente fase avanzata e più pericolosa che mai. Che questo capitalismo iperconsumista sia il problema del mondo attuale e non certo una via di soluzione ai problemi che abbiamo mi pare del tutto evidente e non credo ci sia bisogno di argomentarlo perché altrimenti immagino che chi legge non mi avrebbe seguito fino a qui.
Il comunismo-socialismo non è riuscito a sopravvivere al suo successo rivoluzionario, dove è riuscito a raggiungerlo.
Dove è rimasto all'opposizione ha seguito una graduale mutazione che, attraverso la fase della socialdemocrazia e miscelato con altre correnti di varie sensibilità progressiste, ce lo mostra oggi nella veste della tendenza d'opinione prevalente fra i ceti medio alti e intellettuali. Dove invece ha conquistato il potere con le armi, si è dovuto trasformare ben presto in dittatura. Forse perché ciò che si è ritrovato tra le mani dopo la vittoria era qualcosa di troppo grande per degli esseri umani, per quanto decisi. Ai quali presto, insieme al potere, è rimasta solo la decisione, ma senza saper più di cosa. Situazione che, come è facile capire, porta dritta alla dittatura.
Le “istruzioni per l'uso” della società, che venivano dall'ideologia mancavano forse di qualche pagina? Oppure è stato semplicemente che le cose sono molto più complesse e molto meno logiche di come può sembrare quando si vogliono studiare le “leggi che governano la Storia” ed altre trovate positiviste di questo tipo?

Uno degli abbagli presi dal “materialismo scientifico” aveva a che fare con il problema delle dimensioni. La “società” non è un insieme, ma è la sovrapposizione di molti insiemi di diverso tipo che si compenetrano o si tengono separati secondo i differenti piani di interazione. Lo fanno in base a fattori economico-materiali, ma non solo a questi, e ci sono equilibri anche precari sedimentati da lungo tempo in un gioco delicato ma dinamico. E' facile fare un'analisi convincente, prevedere ciò che va fatto per ottenere un certo cambiamento e, in base a questa mappa, ribaltare tutto.
No, in realtà non è affatto facile, ma è di gran lunga più difficile gestire le forze che si saranno liberate dopo. Che peraltro si muovono anche al di fuori delle “leggi” previste. Si ha a che fare con cose più grandi di noi, che avvengono in dimensioni temporali che coinvolgono le generazioni (quelle future, ma anche quelle passate): troppo per la nostra breve vita.
Ciò che il socialismo voleva realizzare era forse possibile all'interno di insiemi piccoli, semplici; all'interno dei quali le diverse variabili condizionanti potessero essere conosciute, previste, organizzate. Insiemi sociali in cui ognuno potesse percepire la propria parte di responsabilità in modo diretto, sulla base del proprio stesso interesse e non su quella dell'indottrinamento e la costrizione da parte di un partito-dio.
Solo che, per fare questo, il comunismo avrebbe dovuto sottoporre a critica radicale non solo il sistema socioeconomico capitalista, ma pure le sue dirette conseguenze nello stile di vita e di relazione sociale ovvero l'urbanizzazione industriale e i miti culturali prometeici moderni. Di queste cose ne ha fatto invece i suoi cavalli di battaglia. Ma si trattava dei figli di qualcun altro, del sistema nemico, e non è un caso che alla fine questi si siano ribellati. Le masse dei paesi a socialismo reale, infatti, non si sono scrollati di dosso i propri oppressori per seguire ideali di libertà e autogestione più avanzati, ma per non continuare a vivere nella carenza cronica di quei beni di consumo che, nell'ottica materialista (non scientifica, ma consumista) moderna, sostituiscono il senso del sacro e dell'integrazione con la comunità e l'ambiente naturale che reggevano le culture tradizionali. Oggi piace raccontare nei mass-media che il muro è stato fatto crollare da papa Woityla, ma credo che chi lo scavalcava allora stava cercando piuttosto mr. Mac Donald - prima per un bel panino colorato e poco dopo per un posto di lavoro sottopagato.

Il livello di sviluppo e di consumi che un sistema socialista era in grado di garantire (segnatamente in un mondo comunque dominato dal capitalismo) poteva soddisfare una nazione formata fondamentalmente da moltissime piccole comunità di villaggio che si fossero rette sull'agricoltura ed alcune altre attività accessorie. Questa era la dimensione a misura d'uomo che poteva sostenere l'utopia a misura d'uomo del socialismo. Ma il cosidetto “socialismo reale” , sulle fondamenta di società che erano contadine al momento della rivoluzione, ha preteso di erigere i moloch da potenza dell'industria pesante (7) e con ciò ha stravolto tutti gli equilibri sui quali viveva la popolazione ed ha perso il tesoro che aveva per realizzare la propria utopia senza con ciò far sì che questi moloch riuscissero a reggersi a lungo sui propri “piedi d'argilla”.
Mao derideva il nemico proprio per questi presunti “piedi d'argilla” che gli attribuiva, ma sono stati proprio quelli su cui poggiava lui, le masse sterminate dei contadini cinesi, che son rimasti a lungo tali nonostante la galoppante industrializzazione del mondo, a permettere alla Cina di ammortizzare tutti gli strappi e gli scossoni che la modernizzazione forzata ha dato a quel paese di proporzioni immense sino a portarlo ad essere tra poco la superpotenza leader del pianeta.
Non è solo una questione di proporzioni: è molto di più. Se è vero che un sistema socialista potrebbe essere davvero quel modello egualitario e autogestito che sognavano i rivoluzionari ottocenteschi solo in contesti sociali di dimensioni piccole e a misura d'uomo, è altrettanto vero che capire questo avrebbe necessariamente portato a riconoscere che ciò che è possibile e benefico per gli esseri umani non è qualsiasi cosa che soddisfi le loro speculazioni ed i loro desideri, ma può essere, alla lunga, solo ciò che ben si inserisce e si radica nel contesto della Natura. E infatti le comunità agricole di villaggio sono sempre state il modello spontaneo in cui gli umani hanno vissuto nella loro stragrande maggioranza (tranne le minoranze urbane - ma in città molto più contenute ed integrate con la campagna di quelle odierne) fino a che non si è affacciato sulla Storia proprio il capitalismo, figlio, non a caso, delle più grandi città.

Purtroppo la tradizione socialista e comunista si è costruita lungo tutta la sua storia come una figlia più che leggittima dell'Occidente moderno, pur nel suo ruolo di contraltare al capitalismo. E, se poi a questo avversario ha dovuto soccombere, forse ciò dimostra proprio la sua natura di contraltare, cioè di fenomeno antagonista scaturito però dal ceppo del fratello primogenito, al quale spettava di diritto l'eredità di famiglia - che è appunto la situazione catastrofica in cui ci troviamo oggi.
Se questa figlia si fosse ribellata in modo efficace avrebbe tagliato definitivamente i ponti dietro di sé e avrebbe capito che la maggioranza del popolo, all'interesse del quale diceva di essere votata, era costituita di fatto da contadini e non da quell' “avanguardia” di operai industriali sui quali i suoi leader - spesso ben lontani dal lavoro in fabbrica - poggiavano i loro sogni di progresso (in linea ortodossa con le istruzioni dei “padri” Marx, Lenin ecc…).
Ciò che è toccato ai contadini invece sono state le deportazioni staliniane e la morte per fame durante il “Grande Balzo in Avanti” di Mao, mentre anche i gruppi comunisti residui, tuttora attivi in occidente, hanno ascritto alla lista delle loro rivendicazioni anche alcune istanze ambientaliste solo di recente, ma sempre in un'ottica sostanziamente antropocentrica e, apparentemente, soprattutto per aggiornarsi un po' e non essere del tutto spazzati via dal panorama politico. Quel panorama che per “necessità storica” avrebbe dovuto vederli al potere ormai da un pezzo, secondo calcoli “scientifici” a cui ben pochi ormai credono ancora.

Al venir meno dei punti di riferimento socialisti, oggi sono i movimenti che, in modo anche molto divergente fra loro, rivendicano appartenenze a identità etniche, localistiche, religiose, linguistiche, culturali a prendere il loro posto nel ruolo di resistenza allo schiacciasassi economico-culturale che va macinando il mondo per farne denaro.

Questo schiacciasassi ha bisogno di appiattire, di uniformare tutto: lavora meglio così, con le misure standard.
E poi le identità culturali e tutte queste ciance son cose lente, proprie di un altro tempo: vanno bene per le mostre e i documentari, ma se ce le troviamo tra i piedi nella realtà finisce che bisogna adattarsi a mille variabili e tener pure conto dei luoghi dove sono nate e…. se stiamo a dar retta a tutte queste storie qui lo schiacciasassi non cammina…. e noi non abbiamo tempo da perdere con questa roba vecchia!!

Davanti a questo atteggiamento della Storia (occidente-centrica) che avanza a modo suo c'è anche chi non è disposto a scomparire culturalmente adeguandosi al “mainstream”, alla corrente principale, e rivendica una specificità.
Purtroppo, anche in questi casi, il più delle volte si manca di cogliere il punto: spesso questi movimenti (e spesso chi li cavalca) (8) identificano un “nemico” in termini etnici, religiosi o quant'altro e addossano a questo la causa di tutti i loro mali. Ma ciò che vogliono, il più delle volte, è ottenere anch'essi le stesse cose che rendono questo nemico ricco e potente. Quando avranno raggiunto la loro indipendenza, la loro autodeterminazione e una legislazione che segue la loro religione, continueranno a far spazio all'inculturazione incombente (cioè sempre allo schiacciasassi) perché ora arriverà sotto i panni della moda e dei beni di consumo. La rivendicazione di specificità sarà servita allora a poter essere finalmente uguali agli altri: tutti pari nel consumismo (almeno davanti alle vetrine, anche se poi non anche alla cassa). Non vedono, questi local-tradizionalisti un po' strumentali, che ciò che volevano salvare andava scavato a fondo per sgrossarlo dalle incrostazioni del passato e trovarci il nocciolo essenziale e recuperabile del mondo nel quale le tradizioni del loro popolo si sono formate. Non cercano di capirle, nella fretta di farne una bandiera, e perdono in questo modo l'occasione di distinguere il nocciolo di verità contenuto nella tradizione dagli abusi fatti con il suo alibi. E soprattutto non vedono che per recuperare la propria specificità culturale bisogna pure mantenere qualcosa di quella forma di particolare adattamento all'ambiente che ha generato quella cultura.



Comunque la vogliamo vedere, ogni forma di resistenza che da qualsiasi parte, intenda proporsi come via alternativa all'attuale sistema imperante capitalistico e consumista che opprime i popoli e distrugge l'ambiente, non può non confrontarsi con:
- la questione delle dimensioni dell'insieme sociale in cui un modello organizzato di vita che possa dirsi sano può realizzarsi, che devono essere a misura d'uomo ed in armonia con l'ambiente, tali che ognuno abbia la percezione della sua individuale interazione con l'insieme e sentirne la responsabilità - ovvero, devono essere su piccola scala;
- la questione della possibilità di un radicamento nelle persone del modello proposto come qualcosa di reale, esperibile, vissuto ed alla portata di comprensione ed apprezzamento di senso da parte della gente comune - ovvero qualcosa che includa la cooperazione diretta e la condivisione con gli altri di uno stile di vita comune che includa un rapporto fisico con la natura (intesa dentro e fuori di noi), elementi basilari dell'esperienza umana;
- la questione della sostenibilità nel tempo di un tale modello, che non può aver costantemente bisogno di nuovi passaggi di crescita obbligatori in una forzata ottica sviluppista, né può entrare in contraddizione con le reali (o comunque sentite) esigenze delle persone in base a ideali teorici artificiosi, né, ovviamente, con la capacità di sopportazione della Natura;
- la realtà della lentezza con cui avviene ogni mutamento reale che si radichi nelle persone, per cui l'improponibilità delle “rivoluzioni” come salto verso il “progresso”;
- la questione della finitezza della nostra dimensione, della durata della nostra vita, dell'estensione e della “carring capacity” del pianeta, del nostro essere parte di esso e non poterne essere i padroni (neanche volendo). Considerare questa finitezza sia come realtà di fatto che va riconosciuta per rendere sostenibile qualsiasi modello sociale immaginato, sia come giusta visione di qualsiasi modello che deve servire solo ad organizzare nel modo migliore la nostra vita su questa Terra, ma non per illudersi di svolgere una qualche “missione” storica o di qualsiasi altro tipo che si pretende l'uomo abbia da compiere su di essa;
- l'obsolescenza, a un tempo, delle visioni religiose tradizionali dogmatiche e irrazionali, ma la necessità, al tempo stesso, di sentire un senso profondo di qualcosa di “sacro”, che va al di là di noi e per il quale siamo pronti anche a soffrire. Disposizione, questa, di cui, alla lunga, come esseri umani, abbiamo bisogno, come abbiamo bisogno della fatica fisica… e infatti entrambe le cose ce le andiamo a cercare in forma di surrogati, se troppo a lungo ne facciamo a meno.

Queste e molte altre cose sarebbe essenziale tener presenti per poter immaginare modelli politici, sociali, economici che siano davvero altri da ciò che abbiamo di fronte e che, nel costruirli, ci permettano di evitare errori già visti.

Ma ha davvero senso oggi ipotizzare il modello, il movimento politico ideale?
Come hanno funzionato queste cose l'ultima volta?
Tutta la modernità ha vissuto di ricette che più o meno rivendicavano pretese di scientificità nel progettare società ideali e di analisi che rivelavano il motore che le avrebbe prodotte.
Non dico che queste ricette abbiano provocato solo disastri - sarebbe ingeneroso con chi ci ha studiato tanto, chi ha lottato e dato la vita per esse - ma non hanno mai dato ciò che promettevano. Anzi, dopo oltre due secoli di esperimenti, potrebbe venir da pensare che, tutto sommato, qualsiasi sistema di governo, qualsiasi strutturazione della società potrebbe andar bene se ogni individuo si facesse carico con responsabilità ed onestà del proprio ruolo, quale che sia (come pure potrebbe andar male in caso contrario).
Il problema è che il focus modernista è sempre stato puntato sul “sociale” ed i suoi meccanismi: ai due margini rimasti all'esterno delle considerazioni rimanevano, dimenticati - e fors'anche rimossi - l'individuo e l'universo (la Natura, il cosmo).
Ma era stato proprio il dialogo tra queste due dimensioni, cioè la visione religiosa, e meglio ancora quella spirituale, che per moltissimi secoli aveva dato l'indicazione ad ogni persona su come comportarsi, su come svolgere il proprio ruolo su questa Terra, su come assumersi le proprie responsabilità, qualunque fosse il suo posto, direttamente, e non nascondendosi dietro l'essere il cittadino di uno stato, il membro di una società, il sostenitore di un partito ecc… paraventi ormai consunti che ancora con cui ancora un po' ci copriamo, pur senza crederci più.

E se pure ci credessimo, che chances abbiamo di realizzare politicamente un nostro modello (se radicalmente diverso da quello già presente)?
Democraticamente? Le leggi e le iniziative di governo necessarie ad una riconversione autenticamente ecosostenibile sarebbero inaccettabili per la maggioranza delle persone se una gran parte di queste non si fossero già mosse di propria iniziativa trasformando di fatto la società verso la stessa direzione. In altre parole la nostra lista non prenderebbe un voto (o giù di lì).
In modo rivoluzionario? Ho già detto: le cose sono lunghe e complesse, ed oggi abbiamo la democrazia. Se molti fossero pronti a vivere secondo un modello diverso lo farebbero già adesso: nessuno è ancora stato portato in catene ad un centro commerciale per comprare qualcosa forzatamente; può anche darsi che ciò avverrà in futuro, ma oggi siamo ancora liberi di scegliere - ed i più lo fanno in un'altra direzione da quella che vorremmo noi. Dunque chi la fa questa rivoluzione? E comunque come si governerebbe dopo, quando tutti vorranno di nuovo le cose a cui già prima non rinunciavano? Un'altra dittatura? No grazie: abbiamo già visto come va a finire. Non nego che una certa misura di imposizione ci voglia (non è che si possa aspettare l'unanimità), ma prima dovrebbe prender piede una riconversione di fatto da parte di una gran parte delle persone. Se non altro per una questione di onestà e di credibilità. Ed anche per un inizio di sperimentazione, che non guasta.

Rimango “con le antenne dritte” per captare segni di autentici passi verso un cambiamento a livello sociale e politico, ma non ne vedo. A parole, qualche volta (e sempre poco) sì, ma di fatti consistenti ne vedo davvero pochi. Per cui, purtroppo, sono pessimista, e, sul piano generale, non mi aspetto alcuna significativa presa di coscienza prima che le conseguenze dello sconvolgimento dei ritmi naturali del pianeta si facciano sentire con estrema durissima chiarezza. In modo inequivocabile. In modo che non ce se la potrà più stare a raccontare.
Allora, forse, qualcosa potrà cambiare, perché un numero sufficiente di persone lo vorrà; allora potremo, forse, venire ascoltati.
Ma in quel momento di panico e di disperazione, quando non ci sarà più tempo per tenere un piede nello “sviluppo” e uno nel “sostenibile” e sperare di cavarsela così per un altro po', ma bisognerà scappare (e chissà dove) perché cominceranno a mancare (o a costar davvero troppo) le cose basilari, allora sarà utile se qualcuno si sarà già abituato a vivere in un altro modo. E sarà ancor più utile se costui non stia solo lì a sopravvivere a stento, ma avrà già costruito negli anni una situazione concreta ed una esperienza, un approfondimento di questa dimensione di vita veramente ecosostenibile, in modo tale da vederne e poterne comunicare il senso profondo. Un senso di semplice, fondamentale sanità e soddisfazione. Perché agli umani non basta sopravvivere.
Come non basterà consumare.

Allora, come diceva qualcuno, “Che fare?”.
Io direi che è il tempo di aver fiducia in noi stessi e nella Natura che ci sostiene.
Andiamo avanti per primi: se siamo convinti che in fondo non siamo separati dal Tutto - che poi è sempre la Natura - ciò che è bene per il Tutto/Natura lo sarà anche per noi. E questo/a ci sosterrà. Come? Cominciamo a farlo come possiamo e pian piano lo capiremo. Il Tutto, la Natura, non parlano, ma insegnano lo stesso, se vogliamo farci attenzione. E non sognare. Nemmeno quei sogni che sembrano tanto razionali.

Non possiamo credere più a niente? Crediamo a noi stessi dunque e a ciò che è basilare e fondamentale per ogni essere umano. Nulla di più.
Se vogliamo, la scelta neo-contadina (n-c) non è altro che lavorare praticamente alla piena realizzazione/comprensione del posto/dimensione dell'essere umano sulla Terra a partire dalla piena, compiuta soddisfazione dei suoi bisogni basilari, ma con la crescente consapevolezza che realizzarli pienamente, vedendone tutte le implicazioni fin dove arrivano e a tutti i livelli del nostro essere, è un campo di esperienza e conoscenza più ampio di quanto riusciremo mai a comprendere. Parlo proprio dei bisogni basilari, quelli fisici, quelli relazionali e quello di vedere in ogni cosa ciò che va al di là di essa, ma che non ne sta fuori, per cui basta rimanere nel basilare per vederlo.



Ancora per rimanere su considerazioni di tipo ampiamente “politico”, un altro aspetto da sottolineare è che la scelta neo-contadina, pur apparentemente sembrando la nostalgia di un ritorno al passato, ha varie caratteristiche che si ritrovano in linea con l'attitudine contemporanea ed emergente rispetto alle questioni inerenti l'impegno sociale e la politica:
- è una scelta al tempo stesso radicale e del tutto non-violenta: si basa sul togliere terreno e sostegno a ciò che viene considerato distruttivo e non sul combatterlo;
- si muove sì in un'ottica che è anche politica, sociale, storica, al tempo stesso massimamente globale (perché planetaria e perfino universale) ed estremamente locale (individuale/esperienziale in quanto si svolge a partire da ciò che è pratico, concreto, immediato, vissuto, verificato), ma in linea con l'attuale diffusa sfiducia verso le ideologie, le istituzioni politiche e rappresentative e verso l'affidare la propria vita ad ideali lontani ed astrazioni intellettuali;
- non segue un percorso esatto e ben definito: ha una direzione precisa e quindi uno spirito con cui procedere, ma viaggia sul territorio della propria vita vissuta, cercando di realizzare qualcosa che è possibile solo parzialmente e progressivamente nelle situazioni concrete e varie come si danno nella vita, all'interno di un mondo che va in tutt'altra direzione per cui mantiene sempre un principio di indeterminazione pur all'interno di una prospettiva che ha un ben chiaro punto di fuga. È dunque al tempo stesso “massimalista”, ma anche “di massima”: il recupero di un “pensiero forte”, che non dimentica, però, di essere figlio di un tempo successivo alla scoperta della fisica quantistica;
- è inoltre una scelta che ha anche un'importante dimensione spirituale-religiosa (cosa della quale da molti segni si nota esserci oggi un gran bisogno), ma senza essere dogmatica, né fideistica, né fatalistica, né irrazionale. Una dimensione che trova un senso che va al di là del proprio limite individuale (e perfino umano) pur rimanendo nel qui ed ora.




IN PRATICA

All'atto pratico la scelta neo-contadina (n-c) consiste in:
- andare a vivere in campagna (o rimanerci se già ci si è); (9)
- cercare di produrre da sé con sistemi eco-rispettosi almeno parte significativa del proprio cibo e possibilmente anche altro quali altri beni di consumo e servizi. Se il lavoro agricolo e la vendita dei prodotti non può oggettivamente dare tutto ciò che serve (limitandosi a ciò che serve) bisogna cercar di puntare ad un livello comunque sufficiente ad essere in condizioni di ottenere in questo modo almeno l'indispensabile alla sopravvivenza. Abbastanza da non dipendere anche solo per questa dal Sistema. Per quanto riguarda ciò che non si riesce a produrre da sé cercare di approviggionarsi per quanto possibile attraverso scambi che rimangano in un'area locale. La creazione di una rete di scambi tra neo-contadini è la via maestra per rendere più praticabile e proponibile questo tipo di scelta e per dare forza, peso, radicamento e futuro alla sua dimensione anche sociale e politica;
- prendersi cura dell'ambiente direttamente intorno a sé sia dal punto di vista ecologico che estetico;
- fare di questo stile di vita una occasione di consapevolezza di come funziona la Realtà/Natura e del proprio posto in/legame con essa;
- tenere uno stile di vita sobrio: avere e consumare quanto serve a viver bene sì, ma non di più;
- porsi sempre il problema della sostenibilità e della ricaduta ambientale di ciò che si consuma e degli atrezzi che si usano nelle proprie attività, oltre che, naturalmente delle proprie attività stesse; se ci si serve di imprese esterne tener conto di quali sono le loro attività e metodi di lavoro;
- se si hanno o si acquistano beni costosi privilegiare sempre ciò che dura e rimane (eventualmente anche per altri dopo di noi) più che beni usa e getta. Il n-c può anche vivere in una certa sobria agiatezza, se ci riesce. Ma non di tipo consumistico: compra cose che restano e cerca di farle durare quanto possibile. E trova anche normale dover aspettare il tempo necessario prima di potersele permettere. Anche nel non strettamente necessario si limita a cose che effettivamente gli servono. Anche nel relativamente costoso si mantiene comunque entro limiti di prezzo quanto possibile ridotti. Considerando anche la possibilità del riciclo, l'usato, la comproprietà, l'uso condiviso ;
- (il n-c che fosse proprietario di mezzi ingenti dovrebbe metterli a disposizione di chi non ha neanche quelli necessari - e che abbia seriamente l'intenzione di usarli in modo costruttivo - e condurre anch'egli una vita semplice. O altrimenti dovrebbe farsi carico della responsabilità che gli deriva dalla propria condizione privilegiata e mantenere ciò che ha per gestirlo in modo da contribuire al bene generale uomo/natura in qualsiasi tipo di attività utili, anche non agricole);(10)
- avendo necessità di ricorrere anche ad attività non contadine per sostenersi, nel caso in cui le prime non fossero sufficienti (possibilità molto probabile in questo sistema economico) ci si dovrebbe attenere a lavori che siano eco-compatibili. Occupazioni cioè che non abbiano intrinsecamente bisogno di sistemi e strutture eco/socio-insostenibili per esistere ovvero che , in una ipotetica società eco-sostenibile rimarrebbero delle attività utili e necessarie, anche se probabilmente svolte con forme e tecnologie diverse; (11)
- quanto a questi altri lavori collaterali non-agricoli, preferire, dove possibile, occupazioni che si svolgano all'interno di settori economici non solo non dannosi, ma anche positivi nel senso dell'economia solidale ed etica.

È pure importante tener presente che questa serie di principi guida vanno presi con equilibrio e realismo, consapevoli che possono essere applicati, ma il più delle volte con una misura di compromesso. Quella misura che può permettersi colui che sa di non cedere il campo, di voler continuare la sua scelta per tutta la vita, e che è meglio portare avanti la propria strada con una certa gradualità ed adattandola alle diverse condizioni e fasi della vita, piuttosto che forzare le cose in un'ottica rigidamente ideologica per un pò per poi finire ad abbandonare tutto esausti e diventare perfino una prova vivente dell'impossibilità delle prorie idee contraddette nei fatti e forse, alla fine, perfino esplicitamente con le parole. Spesso i campioni di coerenza ideologica, specie se vissuta con spirito competitivo verso sé stessi e gli stessi propri compagni di strada, finiscono per cedere allo stress autoimposto e al non sentirsi all'altezza rispetto all'immensità del compito e così reagire prendendo spesso una strada opposta e difenderla con la stessa ottusa certezza messa nella precedente.(12)
D'altra parte coerenza ci vuole e sforzo e impegno pure. Deve trattarsi di una scelta di vita e quindi a vita: piano piano si costruirà una situazione che realizzerà sempre più e meglio in pratica la coerenza con la scelta di fondo. Ognuno deve trovare la sua misura, un principio di realtà nei compromessi provvisori e inevitabili con la situazione storica di fatto intorno a sé. Ognuno deve capire e stabilire ciò che per lui è davvero necessario e ciò che deriva invece da impulsi consumistici indotti, da proiezioni psicologico-simboliche di proprie tensioni interiori su oggetti esterni da acquistare. Non lo si può stabilire in modo predeterminato dall'esterno e una volta per tutte. I casi personali sono molteplici: chi è giovane e forte e chi è vecchio, chi ha bisogno di compagnia e chi riesce a stare più isolato, chi ha soldi e chi non ne ha, chi è disabile, chi ha determinate passioni a cui non vuole rinunciare, chi è libero e solo e chi ha famiglia e bambini, chi vuole anche un pò viaggiare e chi ha già visto il mondo e chi sta bene a casa sua, ecc… ecc… Sta ad ognuno trovare la sua misura e capire cosa va fatto di volta in volta, di fase in fase. Ripeto: non si tratta di una condizione assoluta da creare lì per lì, che o c'è al 100% o è un fallimento. Non è questo: è la scelta di camminare in una direzione, secondo le proprie possibilità e sinceramente.

E neppure si deve sentire come una contraddizione o un fallimento il fatto che in certa misura si continui a dipendere comunque, per sostentarsi o per servizi necessari, da strutture del sistema sociale in cui non ci si riconosce. Se, facendo i conti con il costo della vita vediamo che il reddito che ci danno le nostre attività contadine, almeno per il momento, non ci basta, se abbiamo comunque bisogno di servizi che solo una società può organizzare, ma che non sono concepiti come li vorremmo ciò non dimostra affatto che la vita come la vediamo noi non è praticabile. È proprio a causa del sistema che ci circonda che abbiamo bisogno di più soldi: fosse per noi vivremmo volentieri in un'economia meno sviluppata, in cui vivere sobriamente non sia così complicato e dove leggi semplificate lo rendano possibile. Ed anche una tale società potrebbe garantirci i servizi necessari.

La vita n-c che facciamo è una realtà che costruiamo giorno per giorno, non un discorso astratto, non una teoria da applicare sic et simpliciter all'esistente. Proprio per questo vive e si crea uno spazio, una possibilità di esistenza come può. Si tratta di crearsi una nicchia di esistenza nell'ambiente dato, come hanno sempre fatto, secondo natura, tutte le specie viventi: non hanno aspettato che tutti i conti teorici tornassero.
La direzione è chiara e netta, ma la via la si crea percorrendola nella realtà così com'è, che è la realtà del Sistema (il mondo di Babylon, direbbero i Rastafari). Non ne siamo all'interno, né ai margini: ne siamo effettivamente fuori, già ora, nel nostro sentire e nel nostro praticare, almeno nella misura in cui possiamo dire che anche se questo “Sistema” o ciò che gli è strutturalmente legato domani venisse a mancare, forse subiremmo anche noi delle forti conseguenze, ma tuttavia, non moriremmo almeno di fame o di freddo. Questo può essere solo un inizio, ma già ci permette di non essere e non sentirci più “sulla stessa barca”.
Anche se, con questo Sistema, dobbiamo relazionarci ancora, perfino tutti i giorni, a volte: non si possono chiudere gli occhi di fronte alla realtà. Però, neanche la nostra alterità è un'illusione se una base di autoproduzione, almeno per lo stretto indispensabile a sopravvivere, la abbiamo. Siamo un pò come quei tribali che scendono dai loro villaggi di montagna per andare in città nel giorno di mercato o quando gli occorre qualcosa che possono trovare solo lì: vengono in città e fintanto che vivono in un mondo dominato da quel sistema non lo ignorano, ci si relazionano, ma sono chiaramente altro da quello, tuttora. E c'è stato un tempo in cui vivevano completamente secondo il loro sistema. E, come c'è stato, in qualche nuova forma, quel tempo potrebbe anche tornare.

È un modo opportunista di rapportarci con ciò che non vorremmo, ma che è più grande di noi? Può darsi. Ma comportamenti che possono apparire opportunisti spesso sono stati la strategia di sopravvivenza di molte specie in natura e il nostro potrebbe anche essere quello del genere umano che voglia sopravvivere alle tendenze autodistruttive che esso stesso ha prodotto. Ai propri errori di prospettiva. Alla propria ignoranza purtroppo unita ad una sproporzionata conoscenza tecnologica.
E cosa dovremmo fare invece? Dovremmo prima stilare un programma di società ecosostenibile, cercar di ottenere una vittoria elettorale per andare al governo (o in alternativa rassegnarci, anche per le nostre personali scelte di vita, al giudizio della maggioranza)? Il n-c vive come crede e non deve prima dimostrare che è possibile: lo dimostra mentre lo fa. Del resto, chi segue questo sistema consumista aspetta forse, per continuare a farlo, la dimostrazione che non ci porterà dritti alla catastrofe? Al contrario: anche quando si considera un cosidetto “principio di precauzione” (come ad esempio nel caso degli OGM) ci si accontenta che finora (un arco di tempo irrisorio relativamente a quest'ordine di questioni) non si siano evidenziati danni oggettivi. Ci si scorda allegramente che, data la scala in cui tali danni oggettivi si potrebbero manifestare, ciò potrebbe richiedere anche parecchio tempo e soprattutto che una volta che questi si manifestassero sarebbe con ogni probabilità troppo tardi per porvi rimedio.
O dovremmo invece “prenderci le nostre responsabilità” e combattere fino alla fine contro un nemico immensamente più grande di noi che trae la sua forza non più solo dall'imposizione, ma soprattutto da un consenso in parte inconsapevole legato alla stessa psicologia umana ed all'ignoranza di sé, alla pervicace abitudine a guardare sempre fuori da sé? Dovremmo fare gli eroi? No grazie, non più. Ne avete fregati già troppi in questo modo. Arrivati a questa fase storica la soluzione deve essere definitiva e permanente e perciò deve realizzare già da subito l'approdo al quale si punta, anche se in sordina. Pertanto deve arrivarci lentamente, pacificamente: senza la necessità di un passaggio rivoluzionario ed eroico in mezzo che lascerebbe ulteriori strascichi irrisolti. Eroi ci si diventa solo dopo morti mentre ora è tempo di capire come vivere. E gli eroi continuano a vivere solo nei libri di storia, ma a scriverli sono sempre gli altri.
Il neo-contadino è ben pronto a pagare il prezzo che costa la sua scelta, anche nei termini della figura che ci fa. Ma non assomiglia ad un eroe, e non ci tiene.
È piuttosto simile a quel saggio cinese che, seduto sulla riva di un bel fiume a contemplare le acque nel loro incessante scorrere, aspettava di vedervi passare il cadavere del suo nemico. Sapeva bene, quel vecchio, che, seppure non l'avesse visto lui, ciò sarebbe senz'altro accaduto a suo figlio o a suo nipote.

Ma non è neanche che si possa stare a raccontarsela.
La scelta neo-contadina è una scelta pratica, una scelta nei fatti, non una questione di chiacchiere: si paga e si continua a pagare. Anche se deve pure farci star bene nel profondo. Però non la scegliamo in primo luogo per star bene, per trarne un vantaggio, ma perché è ciò che va fatto dal quel punto di vista per il quale siamo consapevoli che noi e il pianeta siamo in ultima analisi la stessa cosa e quindi il nostro vero bene non può viaggiare su percorsi antitetici. Per questo! E sul filo di questo sentiero non tracciato camminiamo mantenendo l'equilibrio sotto le spinte di questo mondo.
Le spinte sono reali, non le si può ignorare, il mondo in cui ci troviamo è quello che è: non funziona affatto secondo un modello neo-contadino, tutt'altro, e noi ci dobbiamo vivere, non proprio in mezzo, il più fuori possibile anzi, ma pur sempre qui.

Dunque, per sostentarci economicamente - a meno di essere molto ricchi o molto ascetici - sarà necessario lavorare anche al di fuori della dimensione contadina, almeno in modo saltuario.
In una scelta autenticamente neo-contadina però, questi lavori dovrebbero servire a portarci gradualmente fino ad una situazione in cui abbiamo basilarmente ciò che ci serve (casa, attrezzi ecc…) e possiamo finalmente vivere di sola agricoltura eventualmente accompagnata collateralmente da altre attività veramente eco-compatibili che facciamo sia ai fini di una porzione di reddito non indispensabile che per passione.
È anche importante sottolineare che questa scelta non deve finire per essere perdente: non deve essere fatta con spirito rinunciatario. Bisogna essere in grado di garantirsi, pur rimanendo su questa strada, ciò che veramente ci serve, e in modo soddisfacente. Dobbiamo sentire di aver complessivamente guadagnato piu di quanto abbiamo perso.
Se, dopo anni che ci sforziamo di andare avanti su questa strada, vediamo che così non può andare, dobbiamo chiederci qual'è il punto: qualcosa di sbagliato ci deve essere nel nostro modo di vedere le cose o di procedere, di agire. Può darsi che ci poniamo obiettivi o livelli di coerenza che sono al di sopra delle nostre possibilità o che non ci diamo da fare abbastanza o non nel modo giusto. Dobbiamo fermarci un momento, prendere atto della realtà, vedere quali sono le implicazioni interiori che mischiamo alla situazione oggettiva e dobbiamo aggiustare il tiro, capire qual'è la cosa centrale che va fatta per prima dalla quale dipendono anche le altre, farla e continuare. Il modo c'è sempre di andare avanti su questa strada, perché non è una strada predefinita: ce la dobbiamo aprire da noi e solo noi possiamo sapere come e possiamo saperlo solo limitatamente perché poi qualcosa cambierà e ci vorrà un nuovo aggiustamento. Siamo liberi, ma la direzione verso cui andiamo è fissa ed il criterio di sincerità, che ci fa capire se è lì che ci dirigiamo o se ci stiamo raccontando delle palle, pure: se lo vogliamo sapere lo sappiamo. Non c'è molto da girarci intorno.
Quando c'è questa onestà rispetto alla propria scelta ci si può adattare alla realtà, non si va fuori strada. Non solo, ma, nella sofferenza di viaggiare a metà fra ciò che è giusto e ciò che è possibile, c'è una occasione continua di approfondire, interrogarsi sul significato della propria scelta, su ciò che veramente significa. Cosa veramente è ecocompatibile; cosa vuol dire “secondo natura”; che rapporto c'è tra l'interesse individuale e quello del pianeta; da quale punto di vista si può dire che c'e una differenza di valore tra un comportamento e un altro; che senso c'è nella rinuncia, nella fatica, nella sofferenza, nella coerenza; da cosa dipende il nostro essere tristi o soddisfatti.
Sia nel cammino pratico che in tutto questo lavoro con i nostri dubbi c'è una lenta crescita che alla lunga dà i suoi frutti, e si vede, sia nel miglioramento delle nostre condizioni di vita materiali, oggettive, sia nella nostra maturazione interiore, sia nella nostra capacità di vedere ed apprezzare ciò che abbiamo (e anche questa ci vuole perché, senza di essa, nulla basterebbe mai).
Il fatto che un complessivo benessere si veda è importante anche per le persone che entrano in contatto con noi e che non hanno fatto questa scelta. Se di questa noi abbiamo una visione ampia, che la rende in qualche modo molto silenzioso una scelta militante, sappiamo che è importante che si veda che è una cosa possibile, che può riuscire, sebbene con molto tempo e molti sforzi, e nella quale ci si può stare anche molto bene, e soddisfatti di sé soprattutto, comunque vada.
Detto questo bisogna pure aggiungere che all'inizio e per diversi anni può essere molto dura: ci si può trovare a dover rinunciare a molte cose fino allora date per scontate e a sentirsi effettivamente un “perdente”. Ma bisogna interrogarsi su questo senso di fallimento: perdente è chi rimane sconfitto nella sfida a cui ha preso parte. Ma, sebbene possa sembrare che qualcuno ce lo voglia far credere, non è che siamo automaticamente iscritti alla gara di competizione sociale per il fatto stesso di essere nati. Altro è partecipare ad una corsa e perdere ed altro è andare al proprio passo per la propria strada senza misurarsi con nessuno. La mèta finale è comunque la stessa per tutti e sarà semmai lì che potremo vedere chi ci arriva soddisfatto della sua corsa e chi no: non c'è un giudice di gara, ma c'è un metro di valutazione, e lo si può leggere negli occhi.
Per questo è importante continuare anche a ragionare sul senso di ciò che si fa, perché ci vuole una convinzione profonda, che abbia la forza che ha colui che non nasconde nulla.
Le difficoltà bisogna accettarle e lavorare per risolverle. Man mano si scopre che questa fatica è semplicemente normale: in realtà tutto il mondo sta facendo il suo lavoro in questo momento, in ogni momento.
Ci si lamenta per dover zappare, poi si alzano gli occhi e si capisce che è solo normale: tutti faticano e soffrono nel vivere, alberi, animali e persone, ricchi e poveri. Tutti son felici quando la vita li gratifica. Bisogna andare più in là ed apprezzarla anche quando non lo fa perché è proprio questo movimento la vita: zappare e alzar gli occhi, faticare e capire, vivere e morire; semplicemente normale.

Tornando alla pratica di questa scelta, naturalmente come la si possa cominciare dipende dalla propria situazione di partenza.
Nel caso di una persona che dispone di soldi e mezzi si tratterà di decidere di usarli per un progetto di vita di questo tipo anzichè per altro.(13) Si tratterà di capire che non necessariamente i soldi bebbano essere impiegati per produrne a loro volta di nuovi in crescendo, ma anche invece per migliorare l'esperienza della propria vita e il mondo da un punto di vista olistico. Pur senza necessariamente perdere una condizione di benessere materiale superiore alla media, se uno ci si trova, già la rinuncia ad impiegare la propria ricchezza per accrescerla ancor di più per sé ed i propri figli, lascia spazi economici che possono essere occupati da altri e questo già di per sé aiuta un maggior livellamento delle condizioni di vita delle persone. Inoltre il fatto che persone privilegiate, ai vertici della graduatoria sociale in termini di ricchezza, scelgano di usare i propri mezzi secondo una tendenza piuttosto che un altra dà un chiaro segno che può far riflettere anche molte altre persone in condizioni diverse su ciò che sia effettivamente desiderabile e cosa sia da considerare “benessere”. Il segno che ciò che ci consente l'aver raggiunto un certo livello è proprio il poter essere soddisfatti di ciò che abbiamo e il permetterci di lasciar spazio ad altri mostrando che altro spazio poi va anche lasciato al resto della vita sul pianeta.
La stessa cosa varrebbe a livello mondiale se le società opulente occidentali mostrassero di scegliere questa riconversione come impiego da dare alla propria condizione di maggior sviluppo: ciò costituirebbe un segnale di grande significato per i popoli che guardano all'Occidente come a un modello da seguire (quelli che ancora lo fanno) e sarebbe molto più onesto ed autenticamente esemplare delle operazioni di pretesa “esportazione della democrazia”, quanto al ruolo che alcuni paesi potenti vorebbero assumersi di avanguardie nell'evoluzione dell'umanità.

Chi ha i mezzi sufficienti dunque potrà comprare un podere, una azienda agricola, una casa in campagna con un poco di terra, anche eventualmente in zone sperdute o marginali dove costi meno, nel qual caso è meglio non essere proprio da soli.
Chi non ha questa possibilità cercherà una casa di campagna in affitto e probabilmente dovrà affiancare al lavoro agricolo altre occupazioni complementari, magari anche saltuarie, finchè ciò sarà necessario.
Chi non riesce a trovare una sistemazione neanche in affitto alla portata delle sue possibilità di reddito può trovare accordi con i proprietari di abitazioni rurali in stato di abbandono e recuperarle in cambio di un comodato d'uso di lunga durata.
Adattandosi anche a situazioni scomode e marginali si possono ancora trovare in Italia tante case e terre abbandonate sia di proprietà pubblica che privata che possono essere di nuovo abitate e recuperate trovando accordi con i proprietari che le lasciano in questo stato.
Ma è chiaro che, se mai un giorno il numero di persone che si rivolgessero ad una scelta neo-contadina fosse più ingente, e le terre/case reperibili diventassero insufficienti o indisponibili, va ricordato che fino a non troppi anni fa ci sono anche stati movimenti (piuttosto circoscritti, per la verità, ma pur sempre esistenti) di occupazione di case e terre rurali abbandonate sia demaniali che in qualche caso anche private che, pur con tutti i loro innegabili limiti, tuttora resistono a oltre trent'anni di distanza. Va ricordato che in un paese democratico deve essere possibile, quando si presentano nuove istanze sentite da gruppi sufficientemente consistenti di persone, pensare anche a forme di pressione, di rivendicazione e di lotta per ottenere lo spazio, di agibilità politica e legale, necessario a soddisfarle.
Sul finire degli anni '70 alcuni gruppi di persone, grazie al loro spirito di avventura, alla loro determinazione e alla solidarietà che son riuscite a mantenere tra di loro, son riuscite, pur nell'assoluta carenza di mezzi finanziari e in condizioni iniziali di abusività, a recuperare alcune piccole isole di territorio nelle zone marginali delle campagne italiane a forme di vita che a pieno titolo possono essere definite neo-contadine. Queste realtà esistono tuttora, anche se è abbastanza dubbio che, senza il forte movimento che avevano alle spalle nel clima politico degli anni '70, oggi lo stesso tipo di occupazioni potrebbero resistere nella loro fase iniziale.
Nondimeno, va detto che le fasi calde di lotta, i movimenti, ciò che effettivamente può aprire uno spazio, anche legale, ad istanze nuove di gruppi capaci di far una pressione sufficiente (e non dimentichiamo che le leggi sono sempre la codificazione di rapporti di forza politici) sono fenomeni che le persone possono sempre creare quando si mobilitano in modo organizzato per un obiettivo comune. Nelle lotte di quel periodo è stato fondamentale l'appoggio, sebbene su scala locale, dell'opinione pubblica che ha potuto comprendere lo spirito di chi occupava (e pagava con una vita piuttosto scomoda la propria scelta) anche a causa del fatto innegabile che i beni (perlopiù demaniali) occupati erano rimasti in stato di totale abbandono e degrado per decenni. E neppure mancavano alcune basi legali a cui fare riferimento, quali la legge 285/1977 sull'occupazione e semina delle terre incolte a fini di recupero, la legislazione sugli Usi Civici, la 203/1982 sui contratti agrari di locazione ed altre leggi regionali in materia. Anche alcune delibere regionali con le quali si son trovate, dopo anni di contenzioso, delle forme di aggiustamento in termini di concessione, di affitto ecc… per “legalizzare” queste occupazioni, possono dare indicazioni utili e costituire dei precedenti interessanti.
È certo, comunque, che, per una vita n-c, la questione del luogo, del podere, della casa e della terra, è fondamentale, prioritaria. Come lo è altrettanto che oggi anche casali abbandonati e appezzamenti di terreno in luoghi marginali hanno il loro costo e che lavorare e metter da parte soldi non è così facile. D'altra parte è pur vero che molte persone hanno abbastanza denaro da permettersi un sacco di cose di cui potrebbero benissimo fare a meno e che, se movimenti di lotta efficaci oggi non ci sono più come una volta non credo sia tanto per una mancanza di agibilità politica quanto piuttosto per mancanza di autentiche motivazioni: per non avere obiettivi che al contempo diano un vero senso e riguardino qualcosa di concreto e alla portata delle nostre vite/esperienze.
Voglio anche aggiungere che sarebbe veramente scandaloso se campi e casolari (specialmente se di proprietà pubblica) dovessero restar abbandonati e inutilizzati a fini speculativi o semplicemente per incuria - e finir ricoperti dai rovi - se al contempo ci fosse gente senza molti soldi, ma con la voglia di riabitarli, coltivarli, costruircisi una vita. Sarebbe comunque la valorizzazione di beni che altrimenti vanno perduti, sarebbe salvaguardia del territorio e del paesaggio, sarebbe un'alternativa alla disoccupazione e alla marginalità o al disagio sociale, potrebbero essere nuovi prodotti alimentari genuini e nuovi bambini con un ambiente sano in cui crescere.

Questo dunque per quanto riguarda l'abitazione e la terra.

Anche per quanto riguarda il reddito, ovviamente sarà più facile per chi dispone di maggiori possibilità. Posto che non si svolga il proprio lavoro in ambiti dannosi per altre persone e per l'ambiente (il che, certo, oggi ne esclude parecchie) professioni di ogni tipo e livello possono affiancare ed anche sostenere una vita neo-contadina, cosa che peraltro, ormai è molto facilitata dalle comunicazioni telematiche. Naturalmente per rendere tutto ciò più possibile ci vorrebbe anche l'aiuto di programmi pubblici e aziendali per facilitare chi va a ripopolare zone marginali e lontane dai centri urbani.

Specialmente per chi intraprendesse una vita neo-contadina senza disporre di fondi e senza particolari risorse professionali, si pone anche qui la necessità di una pressione politica per leggi ad hoc che rendano possibile vivere in questa maniera. Oltre naturalmente, alla possibilità di lavoretti più o meno saltuari o a termine, sarebbe molto importante che fosse facilitato il sostentamento attraverso leggi che permettano la produzione/vendita informale di beni autoprodotti.
A questo scopo una misura fondamentale sarebbe il riconoscimento da parte dello Stato della funzione positiva per tutta la Società svolta da coloro che scelgono di vivere in modo radicalmente ecosostenibile in quanto aiutano la riduzione dell'inquinamento e dei cambiamenti climatici, proteggono il territorio ed il paesaggio, recuperano beni, tradizioni, cultura materiale e non, riducono la disoccupazione creando da sé il proprio lavoro…..
Riconoscendo questa funzione positiva lo Stato dovrebbe istituire una sorta di “albo” dei produttori “ecosistemici” definibili seondo criteri che si basino sulla piccola dimensione delle loro attività e su criteri rigorosi di ecosostenibilità. Queste caratteristiche potrebbero essere riconosciute dietro autocertificazione e poi verificate con adeguati controlli a campione ed a sorpresa. Le attività iscritte ad un tale albo dovrebbero costituire una categoria di lavoratori ed attività economico-produttive a sé stante rispetto alle altre che agiscono negli stessi loro settori ma con dimensioni e modalità diverse. Queste attività riconosciute come “su piccola scala” ed “ecosistemiche” dovrebbero avere facile accesso a mercatini informali su strade e piazze senza particolari regole non adeguate ad attività di questo tipo. Ciò dovrebbe valere per produzioni agricole/alimentari, ma anche per artigianato artistico e opere culturali e di spettacolo. Ci dovrebbe essere una verifica stringente quanto alla dimensione e la eco/socio-sostenibilità dei produttori e dei loro metodi di produzione, ma, posto questo, per il resto questa regolamentazione ad hoc dovrebbe servire a rendere sostanzialmente alla portata di chiunque abbia i soli suddetti requisiti mettere un banchetto per strada e vendere i propri prodotti. Queste vendite dovrebbero essere esentasse in virtù del fatto che il ruolo ecologico e socioeconomico svolto da queste persone è positivo per tutti, costituendo di fatto una parziale riconversione ecologica della società, e che, per lo stesso motivo, il loro giro d'affari si mantiene in limiti molto modesti, molto al di sotto della media nazionale, essendo la componente integrativa di reddito liquido in un'economia familiare che non si regge fondamentalmente sul denaro liquido.

Nell'ambito di questo argomento voglio sottolineare il fatto che le attuali legislazioni sanitarie sulle produzioni alimentari in azienda agricola sono fatte secondo criteri adatti alle produzioni industriali e sono di fatto tali da rendere illegali le produzioni contadine e con esse molte di quelle tipiche e tradizionali autentiche e comunque richiedono locali e macchinari non alla portata di chi voglia fare una vita contadina (anche senza il “neo”) - tanto è vero che molti dei prodotti tipici stanno scomparendo, almeno nella loro varietà originale, o riescono a sopravvivere solo come specialità d'elité da boutique gastronomica con prezzi inarrivabili per le persone comuni.(14)
Se la legislazione proseguirà su questa linea l'agricoltura non potrà essere altro che un settore dell'industria e con ciò perderà la sua funzione di darci cibo sano e naturale, si rinucerà ad un enorme potenziale di posti di lavoro effettivi autogenerati (ovvero spazi per l'autoproduzione che, garantendo ciò che serve alle persone, diminuiscono la necessità - e quindi la carenza - di posti di lavoro) e si continuerà sulla strada del degrado idrogeologico, forestale e paesaggistico - proseguendo nell'abbandono di tutte le zone rurali non abbastanza produttive nell'ottica industriale - con le relative gravi ricadute su molte cose fra cui il turismo.
È dunque nell'interesse di tutti - e non solo di chi sceglie una vita ecosostenibile, ed anzi forse ancor più di chi non lo fa in prima persona - che ai produttori ecosistemici (eco-ripettosi e su piccola scala) venga accordato quanto prima uno status sui generis rispetto a chi produce la stessa categoria di beni ma con altri sistemi e su un'altra scala e che venga creata una legislazione (anche sanitaria) ed una specie di albo professionale ad hoc non per privilegiare, ma per rendere possibile, praticabile e non eroica una scelta del genere. Si tratterebbe, in altre parole, di cominciare a riconoscere e legittimare, creandogli uno spazio legale, e a tutelare, creandogli una minima agibilità economica, un settore della società che funziona secondo un modello economico diverso da quello della maggioranza in quanto la scelta personale di chi sceglie questa strada ha indirettamente ricadute positive anche su chi non lo fa.

Naturalmente perché delle istanze di questo tipo vengano portate avanti da qualcuno c'è prima bisogno che questo qualcuno ci sia ovvero che una quantità di persone sufficiente abbia già intrapreso questa strada nelle condizioni contrarie che trova all'inizio. Questo è un punto centrale di tutta la questione: non è che una vita neo-contadina debba per forza essere durissima, può ben essere molto piacevole, ma molto dipende da quanto è diffusa: più si è isolati e più ci vuole una convinzione quasi eroica per continuare, più si è in tanti e più si crea spontaneamente una rete di scambi e collaborazioni, rapporti economici e non che rendono tutto molto più facile.
Se, ad esempio, i n-c presenti in una zona, riescono a creare fra di loro una rete di scambi e collaborazioni lavorative e commerciali, a dar vita, anche parzialmente, ad una sorta di “mercato interno”, è chiaro che questo renderà molto più agevole sia un raggiungimento relativamente rapido di condizioni di vita migliori sia la non-dipendenza di queste da relazioni strutturali col sistema economico imperante.
Questa rete di collaborazioni, anzi, e specialmente per quei n-c che volessero essere anche propositivi verso l'esterno quanto a ciò che fanno, potrebbe arrivare a costruire forme aggregate di piccoli produttori (come cooperative o altro) che vendano i propri prodotti riuscendo, attraverso essi, anche a veicolare il contenuto non solo materiale di una scelta di vita e, nella migliore delle ipotesi, perfino a offrire posti di lavoro in un contesto ben caratterizzato e/o l'occasione per altri di fare l'esperienza di un certo tipo di vita.
Nella dimensione neo-contadina, anzi, l'aspetto “militante” sta in gran parte - insieme allo sforzo per resistere e continuare nella propria scelta di vita nonostante le difficoltà - proprio qui, nel riconoscere l'importanza del creare questa rete insieme agli altri n-c. Ciò ha una motivazione fortemente militante perché serve a costruire e dar futuro ad una nuova (micro)società che potrà crescere solo se questo futuro lo potrà avere, ma senza accompagnarsi ad un atteggiamento astrattamente ideologico. Si tratta, come principio, di scegliere di servirsi della collaborazione di persone che stanno facendo un percorso analogo al nostro piuttosto che di altri, ma si tratta, al tempo stesso e reciprocamente, di sapersi meritare questa preferenza. Il che non è così scontato, dato che ci si confronta su cose molto concrete, sulle quali conta poco il pensarla uguale su tante belle idee, sulle quali si può far nascere una fiducia autentica e comprovata dai fatti, ma la si può altrettanto facilmente distruggere: dipende da come ci si comporta. Dunque, specialmente (e non solo) nei suoi rapporti con gli altri n-c, per il neo-contadino, la correttezza è fondamentale: sa che non solo egli stesso si troverebbe peggio altrimenti, ma la stessa possibilità del suo modo di “cambiare il mondo” ne verrebbe indebolita.
Non a caso, del resto, nelle comunità di contadini tradizionali c'è sempre stato un ben preciso codice di condotta: da un lato, avendo tutti potenzialmente bisogno di tutti, si era sempre pronti a dare una mano a chiunque, ma dall'altro, si doveva star bene attenti a non comportarsi in modo da esser messi ai margini perché, senza godere della stima da parte degli altri, era veramente difficile vivere.

L'importanza della collaborazione/solidarietà per la praticabilità della scelta n-c vale forse ancor di più, infatti, per un altro aspetto: quello della vita sociale, culturale, delle relazioni umane, della convivialità, della possibilità di ritrovarsi, confrontarsi e divertirsi con altre persone.
Questo è un punto molto critico in una scelta di vita in campagna, è inutile negarlo: alla lunga è forse il più critico, specialmente per persone nate e cresciute in città ed ancor di più se con una formazione che li porta ad avere interessi culturali, intellettuali, artistici.
Ma anche quanto a questo in realtà tutto dipende da quante persone decidono di intraprendere questa scelta: il fatto che la vita in campagna sia immaginata dai cittadini come noia, mancanza di stimoli, isolamento, allontanamento dalla vita culturale (magari insieme a pennellate romantico-bucoliche tipiche di chi in campagna ci va solo in vacanza), non dipende da qualcosa di reale per cui non possa essere altro che così. Le società del passato, anche le più famose per le loro espressioni artistico-culturali erano società agricole ed anche se spesso queste produzioni avvenivano nei centri urbani, si trattava di centri molto piccoli rispetto alle grandi città di oggi e strettamente legati al mondo rurale che li circondava, che li alimentava e li attraversava tutti i giorni con i rifornimenti ed i mercati. Né si può dimenticare che anche le popolazioni veramente tradizionali hanno sempre avuto le loro forme di pittura, scultura, musica, teatro, narrativa, mito-filosofia pur vivendo in villaggi sparsi in foreste e montagne.
Non è dunque il non vivere in città di per sé che porta ad isolamento e inaridimento culturale, ma il fatto che la gente è andata a vivere tutta lì, anche se poi la cultura che ci trova spesso non viene dalla propria vita perché non la può produrre, ma solo acquistare. Nella città anche chi produce cultura non lo fa a partire dalla propria vita comune a quella degli altri, ma, viceversa, fa della sua vita cultura ovvero ne diventa un professionista vieppiù alieno rispetto alla realtà vissuta dagli altri che alle sue opere guarderanno (semprechè queste siano vendibili e perciò trovino modo di farsi conoscere) e vi cercheranno punti di riferimento che potranno aiutarli però solo più a sognare che a vivere. Le sue opere non traggono origine direttamente dalla vita vissuta, ma sono a loro volta un discorso sull'arte, un giro in più nelle volture di un linguaggio che si avvolge su sé stesso.

Nelle città c'è più vita sociale e culturale perché c'è più gente, ci sono più scambi, più confronti. Tutto qui.
In campagna ci sarebbe altrettanto se ci tornasse a vivere più gente. In compenso in campagna la base sulla quale avvengono le relazioni interpersonali e sulla quale quindi può nascere cultura, è più vera, perché è più diretta, da persona a persona, condividendo cose concrete, reali; arrivando presto al confronto e al conflitto, se è il caso, e dovendo rapidamente risolverlo rapportandosi in modo chiaro per come si è, perché si è più faccia a faccia. Contano poco le mediazioni simbolico-culturali, il vestito, il linguaggio, l'atteggiamento, lo stile ecc…
La dimensione contadina porta più naturalmente alla solidarietà, se non altro perché, nella scarsità dei mezzi e nella relativa durezza delle condizioni di vita, ognuno sa sempre che potrebbe avere bisogno dell'altro. Cosa che prima o poi avviene. Dunque il rispetto e la considerazione altrui devono essere maggiori di base e quando c'è il confronto con l'altro questo è più diretto, personale; non c'è spazio per troppi fronzoli.
Non c'è da far riferimento sempre ad altre cose che hanno valore simbolico e categorizzano a priori: l'interazione è più completa, più integrale, più schietta. O, almeno, ci sono maggiormente le condizioni perché lo sia, poi, naturalmente… dipende sempre da noi.
Che queste condizioni siano date anche in buona parte dalla necessità, non toglie nulla al fatto che la solidarietà sia autentica. È un sogno idealistico quello per cui dovremmo fare tutto in modo assolutamente altruistico e disinteressato. Un idealismo che non ha reso il mondo migliore in tanti anni. Sarebbe forse meglio mettere più a fuoco la nostra attenzione a come siamo che a come dovremmo essere e capire che una dose di sano, naturale egoismo, è semplicemente normale, ci appartiene. Ci aiuta anzi a capire meglio qual'è la nostra dimensione naturale, e la misura giusta, appropriata, per il nostro sviluppo. Se a volte verrebbe da dire che “si stava meglio quando si stava peggio”, molto è proprio per questo: le relazioni umane sono importantissime, ed abbiamo bisogno di sentirci “insieme” di riconoscerci parte di una comunità. Ma oltre determinati livelli di ricchezza non abbiamo più la percezione chiara di aver bisogno degli altri né di perché: non appena ci risultano un po' scomodi possiamo abbandonarli e chiudere le comunicazioni. Alla lunga questo si rivela un lusso che porta alla disgregazione delle comunità. Queste si sciolgono nella “società” che però è un'entità astratta nella quale solo pochi individui molto portati all'astrazione e che si trovano in una posizione “di vertice”, nella quale questa teorica sommatoria di individui e gruppi può avere un senso, possono realmente riconoscersi. Per gli altri ormai rimangono solo la famiglia, anch'essa molto traballante, e la cerchia di amici, che però è spesso spazzata via dall'ingresso nel mondo del lavoro (15). Oltre questi residui di comunità non resta che la competizione individuale di tutti contro tutti in nome del successo, di essere (o apparire) i migliori. Ma questa è l'estremizzazione di qualcosa iniziato molto molto prima: nell'idea stessa di dover essere anche solo “migliori” - e metterci così in contraddizione con noi stessi. Dando così il via a quel processo che chiamiamo “civilizzazione”.
Non sarebbe meglio osservare come naturalmente siamo? Accontentarci di riconoscerci una basilare misura di egoismo necessaria a vivere e vedere che questa (in un modo che è solo apparentemente paradossale) ci porta anche alla solidarietà, ma solo finchè viviamo nelle condizioni oggettive e nel contesto che ci è naturale, che creano un equilibrio necessario tra il nostro interesse e quello altrui?
Molti esperimenti fatti da ricercatori di etologia hanno dimostrato che animali normalmente pacifici e non aggressivi lo diventano anche con altri della loro stessa specie se costretti a convivere in spazi troppo piccoli, rumorosi, stressanti.
Non ha nessun senso inseguire l'idea di diventar sempre più “civili” fino a dove questo ci porta a perdere anche ciò che di buono possiamo già essere.
La “fine della Storia”, nel tempo circolare del mondo contadino tradizionale c'è sempre stata (visto che lì la Storia non è mai iniziata, non essendoci bisogno di inventarla). Ma quella che lo studioso americano Fukuyama credeva di ravvisare nel sogno di vittoria di una sorta di “civiltà definitiva”, rischia di farci risvegliare nel bel mezzo della caduta di un sistema globale che si disgrega in una catena di conflitti senza fine.
Senza fare i conti con noi stessi come siamo rischiamo di andare avanti alla cieca seguendo luci lontane mentre in ogni singolo passo muoviamo i piedi nel buio. Mentre guardiamo agli obiettivi ci dimentichiamo di sapere chi siamo noi e sostituiamo a questo la nostra immagine.

In campagna sono le nostre stesse case a diventare luoghi di ritrovo, più che i luoghi pubblici o commerciali. La nozione di non-luogo è sconosciuta , inimmaginabile: vedersi nelle proprie case ci mette in gioco per ciò che siamo; i non-luoghi servono ad essere non-noi.

Quindi certamente in una vita neo-contadina ci sarà da aspettarsi senz'altro un certo grado di isolamento, almeno finchè le tendenze attuali non cambieranno auspicabilmente in questo senso. Ma non si tratta di un aspetto necessario ed inevitabile: dipende soprattutto dal fatto che troppa poca gente ha ancora preso questa strada e che moltissima invece la vede come qualcosa di impossibile, irrealistico e tale da farci perdere molto del bello della vita. Purtroppo molti non seguono ciò che sentono (anche quando riescono a sentirlo) ed hanno un concetto molto pensato a tavolino di ciò che è “ragionevole”. A volte sarebbe meglio affacciarsi un poco oltre il punto in cui I nostri sogni potrebbero diventare realtà: spesso possiamo scoprire che son meno idilliaci di quando ci limitiamo a sognarli, ma anche molto più possibili, ricchi e interessanti.
Dunque dobbiamo aspettarci un certo cambiamento nella nostra socialità se andiamo, da una grande città, a vivere in campagna, senza dubbio, ma ciò sarà molto relativo se si vive da soli o in coppia, famiglie, gruppi, comunità, eco-villaggi ecc…
E sarà anche relativo a dove si vive e a quale grado di radicalità si darà alla propria scelta e al proprio stile di vita.



In realtà - e fuori dai quadri teorici - la realizzazione vera dell'opzione neo-contadina avviene in modo molto graduale ed in convivenza con una società altrimenti strutturata. Per cui, da un lato non ci si trova di colpo all'età della pietra senza tecnologie e servizi, e dall'altro la società cambia di fatto lentamente e senza traumi e si dà progressivamente nuove forme in accordo con i nuovi stili di vita che si vanno diffondendo.
Senza bisogno di lottare, tranne che nei luoghi e sulle questioni specifiche in cui è indispensabile. E fandolo, quando è il caso, su questioni concrete e, limitatamente a queste, con alleanze anche mutevoli di caso in caso con chi dalla nostra parte si ritrova.
Dalla dimensione di vita contadina nasce anche un approccio diverso allo schieramento su questioni oggetto di scontro o di dibattito rispetto a quella cittadina e massmediatica oggi egemone specialmente in Italia. Non vivendo in un mondo di simboli, ma rimanendo vicini alle cose, non si avverte il bisogno di schierarsi su ogni questione in base ad una visione complessiva precisamente precostituita, ad un “colore” che ci si è dati. Si vedono le cose caso per caso e nell'ambito, nel contesto in cui avvengono, inoltre si può anche aspettare prima di prender posizione. Si parte, da un lato dalla dimensione locale condivisa e direttamente conosciuta che aiuta a trovare un punto di incontro (non per buonismo, ma per interesse a trovarlo), e dall'altro dalla nozione che il mondo è vasto, e c'è spazio per tutti, la nozione della biodiversità, per cui non ci si aspetta di uniformarlo questo mondo. Per convivere pacificamente non c'è per forza bisogno di essere inter-qualcosa (interetnici, interculturali ecc…), ma basta rispettare spazi e distanze - cosa che, in campagna, ci si può permettere di avere - e poi è anche possibile ignorarsi tranquillamente se è il caso.

Non abbiamo fretta di veder trionfare nella Storia la nostra scelta a livello di massa: è qualcosa che ha tempi evoluzionistici. Dobbiamo solo esser convinti di voler dare questa piega alla nostra vita, capendo che è ciò che va fatto e che ciò che rende sana per il pianeta la nostra presenza su di esso non può non esserlo anche per noi.

In questa prospettiva senza scadenza è naturale che abbiano un posto importante anche i nostri figli. È chiaro che poi loro faranno quel che vogliono della loro vita, ma lo è altrettanto che, se una persona fa la scelta di vivere in un determinato modo, questo formerà anche in qualche modo l'impronta che riceveranno i suoi figli. Se poi questi da grandi ci si ritroveranno, questa scelta vivrà e crescerà per un'altra generazione: questa è la vera via in cui cambia il mondo.
Da questo punto di vista devo dire che non capisco e non approvo coloro che hanno fatto per sé certe scelte alternative anche radicali, da giovani, e poi, quando si trovano ad avere dei figli, accettano per loro lo stile consumistico imperante per paura che “si sentano diversi”.
È chiaro che bisogna avere una misura di buon senso e ragionevolezza, non è mai il caso di imporre rigidamente principi astratti e forzature (che con ogni probabilità creeranno problemi e finiranno per essere controproducenti), ma un genitore, voglia o non voglia, è lì a dare una direzione ai suoi bambini, lo fa comunque, e se uno ha fatto certe scelte per sé dovrebbe avere il coraggio di mantenerle anche quando si tratta di prendersi la responsabilità di crederci nel trasmetterle a qualcun altro - oppure forse non era il caso che prendesse quella strada neppure per sé o, meglio, che approfondisse di più quale significato che gli dava.

I bambini sono anche un punto di interazione tra chi fa una vita che vuol essere alternativa rispetto all'andamento generale della società e questa stessa dato che per l'uso delle strutture scolastiche ed altri servizi pubblici bambini con background differenti si trovano a condividere spazi ed esperienze e a confronto e portano anche i genitori a relazionarsi il che è una delle molte vie attraverso cui passa di fatto il dialogo tra “neo-contadini” ed “integrati” (se vogliamo usare schematicamente queste etichette) ed i rispettivi sistemi di vita ed attraverso questo un lento cambiamento della società.

Il punto del confronto tra i propri bambini e il resto della società è un motivo in più per il neo-contadino per far sì che la sua scelta non sia e neanche appaia come perdente: per la propria via egli deve aver costruito un luogo ed un modo in cui vivere bello e soddisfacente, dignitoso e ben curato, apprezzabile anche da parte di chi preferisce comunque vivere diversamente. Non bisogna fare di questa scelta una scappatoia rinunciataria che ci porti a vivere in modo trascurato autogiustificandoci con vittimismi da emarginati. Una cosa è essere dei falliti, cioè non avere la situazione di vita che altri possiedono perché non si è riusciti a conquistarsela o ci si è rinunciato pur, sotto sotto, desiderandola e tutt'altra è collocarsi per scelta consapevole fuori da una serie di meccanismi e costruirsi una realtà diversa nella quale non si hanno certe cose (che si rifiutano), ma se ne hanno altre e si è convinti di ciò che si è fatto e del perché.


Perché questa scelta sia praticabile, proponibile, non eroica ed abbia successo nel diffondersi, è critica la questione della collaborazione tra le persone che la praticano.
È certamente una scelta possibile ed altrettanto sensata anche da soli o come famiglia nucleare, ma è più difficile.
Sotto molti punti di vista credo l'ideale sia un gruppo di persone convinte, per esperienza direi meglio se non conviventi nella stessa casa, ma che collaborano e si organizzano sulle varie attività - il che implica che neppure possono abitare troppo lontani fra loro.
Questo è ancor più importante quando scarseggiano i mezzi finanziari.

D'altra parte , la dimensione collettiva presenta pure diversi problemi che bisogna tener presenti magari anche alla luce di come sono andate esperienze precedenti fatte in passato da vari gruppi di persone in questo senso.
Io posso parlare quanto a questo a partire dalla mia esperienza personale, che ovviamente è limitata e caratterizzata dal periodo in cui è avvenuta, un periodo improntato ad una (sub)cultura post-anni '70 - che però ha continuato in questa linea abbondantemente oltre la fine di quel decennio. D'altra parte credo si tratti di casi utili da considerare in quanto la cultura anni '70 è stata la più vicina almeno dell'ultimo mezzo secolo a poter avere un esito in chiave neo-contadina e quella che ha prodotto molti tra i gruppi che hanno praticato una scelta di questo genere. Per cui credo che, se in futuro un movimento simile si dovesse ripresentare, probabilmente, pur con una diversa sensibilità, dovrà confrontarsi con alcune questioni che sono state centrali e problematiche in quella stagione e che, a mio giudizio, ne hanno pure segnato i limiti.

Alcuni dei punti critici sono:
- tendenze “da sognatori”, idealistiche, romantiche, irrazionali ed anti-razionalistiche, irrealistiche ed ideologiche senza senso della misura, enfaticamente collettivistiche in modo tale da ignorare le legittime componenti egoistiche e privatistiche di ognuno e con ciò alla fine controproducenti;
- tendenze “massimaliste” di rifiuto totale della tecnologia moderna fino a costringersi in condizioni di vita insostenibili, con la conseguenza, poi, di abbandonare tutto;
- mancanza di rispetto delle relazioni di coppia: un fattore decisivo nel minare la fiducia reciproca e gli sviluppi possibili di collaborazioni costruttive;
- comportamenti scorretti rispetto alla proprietà personale;
- rifiuto acritico e aprioristico di riconoscere senso a valori e consuetudini tradizionali o anche solo di porsi il problema di tale senso;
- uso eccessivo di alcool e droghe;
- mancanza di realismo, di pragmaticità e di riconoscimento della realtà del mondo circostante (salvo poi doverlo riconoscere nei fatti e solo per necessità - come nel caso in cui, non essendosi costruiti una situazione economica indipendente, ci si ritrova a doversi adattare ad un lavoro dipendente a vita fatto senza altra motivazione che quella dello stipendio, il che, se può esser normale per molta gente, per chi fosse partito per una scelta neo-contadina, è un pò un fallimento);
- mancanza di approfondimento del significato, delle implicazioni e delle reali conseguenze e possibilità della propria scelta. Fermarsi ad un livello superficiale, o solo pratico, forse anche continuando ad aderire, magari inconsapevolmente, a modi di vedere in contraddizione con la propria stessa scelta. Non portare avanti la propria separazione da ciò che è eco-incompatibile fino all'essenza delle cose. Dimenticare il cuore dello spirito che ci ha portato qui e ritrovarsi orfani di ogni fondamento allo stesso modo e perfino peggio di chi è del tutto calato nella modernità “mainstream”.

Nella via n-c ognuno può trovare un suo senso e può anche non porsi il problema di approfondirlo. Non è una cosa veramente indispensabile perché si possa trattare comunque di una scelta neo-contadina nel senso che dò a questa parola. Così come, se credo che un “ecofondamentalista” non possa non essere anche un neo-contadino (o anche un contadino vero e proprio, quanto a questo), non vale l'inverso: non vedo assolutamente necessario, perché un n-c sia tale, che si trovi in sintonia con tutto l'insieme di idee che propongo comprensivamente sotto il nome di Ecofondamentalismo.
In quanto tale considero la condizione n-c come qualcosa che riguarda una condotta oggettiva, materiale, lavorativa, economica, di produzione/consumo e, quanto al trattarsi effettivamente di scelta neo-contadina ciò è sufficiente, indipendentemente da come la si pensi su tante altre questioni: non si tratta di aderire ad un partito.

D'altra parte c'è sempre in noi un aspetto immateriale, mentale, spirituale e, sebbene per ognuno sarà diverso, ci sono cose che voglio dire su questo quanto alla mia esperienza e sulle riflessioni che questa mi ha suscitato.




ASPETTI “SPIRITUALI”

La vita neo-contadina (n-c) comporta una lunga scuola di consapevolezza di una questione che ruota intorno ai punti: libertà/ego, necessità/realtà, realizzazione/limite.
Si parte per la Libertà e si trova la Necessità ed il Limite con i quali si scontra l'ego che, se non si scappa, finisce per inchinarsi alla Realtà e a scoprirvi dentro, al di là di sé e della propria libertà, la dimensione della Realizzazione.
Lì c'è il fondamento della propria scelta al di là del successo e del tempo e c'è una base veramente altra su cui poggiare i piedi mentre si continua a rapportarsi col mondo così come esso si presenta intorno a noi.
Questo avviene attraverso la pratica, le necessità del lavoro agricolo, il rimanere nel disagio che richiede, l'impossibilità di fuggire in qualsiasi tipo di altrove.
Da questo punto di vista la vita contadina è una forma di meditazione, ma lo è molto di più se dalla meditazione formale vera e propria come pratica quotidiana viene accompagnata.

Dentro la fatica, la necessità, la solitudine, mentre ci si chiede “che lo faccio a fare?” e “che senso ha?”, si alzano gli occhi, ci si guarda intorno e si vede la bellezza, si capisce che tutto il vivere del mondo funziona così e ce se ne sente compartecipi, di una compartecipazione, al tempo stesso di gioia e di dolore, che va molto al di là di noi e dei limiti temporali della nostra vita, che, in sostanza, non potrebbe essere che così com'è e che è sacra semplicemente perché è tutto ciò che esiste.

Non è che si smetta di soffrire la fatica ed il limite, ma ne vediamo il senso al di là dello scopo.
Rivoltiamo la terra per seminare e mangiare, ripariamo la staccionata per non far passare gli animali, ma sentiamo che non è solo questo. Ad un certo livello abbiamo il nostro scopo corrente, ma c'è un altro livello. Quello in cui siamo coscienti di non esser nati contadini o, se invece ci siamo nati, che potevamo fare tutt'altro. Il livello in cui sappiamo che c'è stato un momento in cui lo abbiamo scelto di vivere così - una scelta che rinnoviamo ogni giorno mentre la nostra vita intera passa in questo modo.
È a questo livello che sappiamo che ciò che facciamo lo facciamo senza scopo, che è solo il nostro ruolo nell'immenso mondo, nell'infinita Vita, ciò che stiamo svolgendo e che, anche qualunque altra cosa facessimo, in realtà non potrebbe essere altro che questo.
Solo che, svolgendolo in questo modo, ce ne accorgiamo.
E ce ne accorgiamo - pur in mezzo a fatiche e insoddisfazioni che sempre accompagnano la vita umana - come di una cosa che sta al suo posto, che va come deve andare, con un senso di ordine e di appropriatezza e con ciò di bellezza. Senza un perché.

Se poi invece vogliamo pure insistere a chiedercelo un perché, allora possiamo considerare che questo modo di svolgere il proprio ruolo nel mondo potrebbe essere praticato virtualmente da tutti gli esseri umani senza che per questo il pianeta debba averne a soffrire, senza che il suo modo di funzionare e il suo clima ne siano stravolti, che specie viventi si estinguano a causa nostra, che altre persone debbano necessariamente vivere in miseria e ciò per molti e molti e molti secoli e millenni a venire (salvo, ovviamente, eventi naturali).
Così sappiamo che, se pure, dal punto di vista delle galassie, in fondo, che noi facciamo il contadino biologico o il trafficante di ordigni nucleari può essere del tutto indifferente, noi, nella vicenda vissuta della nostra esistenza - di quel “noi” che, per quanto transeunte e in fin dei conti illusorio, è tutto ciò che abbiamo e che ci dà la facoltà di amare - apparteniamo anche e soprattutto ad un'altra scala di realtà: quella di questa Terra, della quale siamo parte. E da questo punto di vista non è affatto indifferente come viviamo, tanto che si rispecchia direttamente - ed anche senza sapere perché - nel modo in cui ci sentiamo.
Allora tutto acquista un senso all'interno di questa visione complessiva: anche la fatica, anche il dolore, anche a volte il conflitto, anche i desideri e le illusioni, hanno il loro posto perché questo “Tutto” è reale , è molteplice e vivente e ci comprende per quelli che siamo, proprio noi, qui ed ora, non in un modo qualsiasi, ma in quello in cui le cose sono ogni volta.
E le cose sono in modo tale che dobbiamo fare sempre delle scelte e che tutte le nostre azioni hanno delle conseguenze e ce le hanno a tanti livelli quante sono le dimensioni della nostra esistenza.
Così, la nostra vita n-c realizza - cioè dà vita, dà realtà in pratica a - una visione che è al tempo stesso molto pragmatica, razionale, materialista ed esistenziale, di consapevolezza, spirituale: un “sentiero che ha un cuore” (nel senso di Castaneda), ma percorso con gli occhi bene aperti sia verso l'esterno che verso l'interno.

Siamo neo-contadini, dunque, perché, insieme alle nostre piante e la nostra terra, coltiviamo anche una consapevolzza su cosa siamo e qual'è il nostro ruolo nel mondo - che è la Natura, in primo luogo e, all'interno di questa, l'umanità.

La nostra via non è una rinuncia o un'involuzione, un regredire. È, al contrario, il frutto giusto di tanta evoluzione, di tanta conoscenza accumulata, di tanta ricchezza prodotta (e spesso purtroppo anche usurpata ad altri) dalle generazioni che ci hanno preceduto.
È il potersi permettere, a questo punto, di spostare l'idea di “progresso” dal binario materiale-egoico a quello olistico all'interno e all'esterno di noi.
La ricchezza di potersi permettere una rinuncia a ciò che è inutile e dannoso e l'opzione libera e cosciente per ciò che è “buono, pulito e giusto” a tutti i livelli possibili.





NOTE

(1) Non va trascurato il fatto che una ipotetica tecnologia sostenibile di là da venire dovrebbe anche essere alla portata di tutti in termini di prezzo per poter essere diffusa (e perciò difficilmente coprirebbe gli investimenti necessari per la ricerca finalizzata ad ottenerla) e presupporrebbe al tempo stesso un alto grado di istruzione unita ad una consapevolezza ecologica anch'esse generalizzate a livello di massa e mondiale per essere usata. Ma perché sia possibile accedere da parte di tutti nel mondo ad un tale livello di istruzione sarebbe altresì necessario un notevole incremento del livello di reddito medio, se si rimane nel sistema capital-liberista attuale, il che richiederebbe a sua volta un preventivo ulteriore aumento di crescita nei livelli di produzione/consumo mondiali. Già oggi sappiamo benissimo che il risultato non potrebbe essere altro che un'accelerazione dei processi in atto sul clima e sull'ambiente che giungerebbero alle loro tragiche conseguenze ben prima che una tale teorica tecnologia sostenibile fosse trovata, resa disponibile e diffusa a livello globale. Ciò non significa che non si debbano destinare tutte le risorse possibili alla ricerca per una tecnologia sostenibile, né che si possa trascurare l'urgenza di riconsiderare la distribuzione scandalosamente ineguale tra le condizioni socioeconomiche nel mondo, ma mostra che non ci si può affidare solo a queste misure di amplissimo respiro per cambiare qualcosa con l'urgenza che occorre. Tutte queste cose vanno bene, ma dobbiamo anche e soprattutto fare qualcosa subito, qualcosa di concreto che possiamo far da noi. Iniziare ad affermare una tendenza nella realtà, perché non è affatto certo che avremo il tempo per ottenere le condizioni tecnologiche e sociali per costruire un nuovo modello e comunque, anche quando queste ci fossero, poi sempre resterebbe da cominciare a vivere in un altro modo.

(2) Sebbene, in un sistema ecocompatibile, molto semplificato rispetto all'attuale, una buona parte di quelle di oggi non avrebbe ragione né modo di esistere.

(3) Infatti, la mia idea di scelta n-c non è quella “filoascetica” delle comunità spirituali o di individui che si ispirano alle figure dei sadhu indiani o personaggi simili, né quella di comunità “neo-primitive” che cercano di riprodurre forme molto collettiviste di vita quasi tribale e pretecnologica. Non nego con ciò che anche queste siano forme di vita n-c del tutto valide e degne di rispetto e riconoscimento come vie possibili di vita ecosostenibile. Ma non sono questi i modelli a cui penso perché non li trovo proponibili né praticabili a livello di massa, non da parte di un vasto numero di persone. È del tutto normale e comprensibile che la generalità delle persone (me compreso) non si sentano di abbracciare una scelta in cui tutta la tecnologia moderna debba venir meno, in cui ogni livello di benessere ed indipendenza individuale anch'essi moderni debbano esser abbandonati ovvero una prospettiva che può esser sostenuta solo in base ad un approccio fortemente ideologico. Credo molto di più ad una scelta n-c che sia certamente coerente fino al punto di avere al centro dell'attenzione la propria ecosostenibilità, ma che sappia anche prendere ciò che è recuperabile della tecnologia e la cultura moderna e che sia interessante anche per chi abbia aspirazioni di fare una vita “normale” con relazioni sociali e familiari “normali” per come in modo molto generale possiamo intendere questo aggettivo: non qualcosa che possa costituire un'ipotesi possibile solo per chi si riconosca in visioni ed abitudini molto estreme e minoritarie. Questo implica pure - evitando un rifuto assoluto ed unilaterale, peraltro poi ben diffiile da mantenere nei fatti e molto raramente mantenuto - un interrogarsi criticamente su ciò che è accettabile e ciò che non lo è del vivere moderno, nel riconoscerne le ragioni degli errori, nel cogliere l'origine del loro radicamento e nel sapersi ispirare alle culture “altre” in modo serio e critico, senza mitizzazioni e pretese di poterle semplicemente riprodurre - mentre intanto sono già scomparse nei loro luoghi d'origine.

(4) Perché la parola “natura” abbia un senso reale, deve significare l'esperienza vissuta del vivere in rapporto con la natura, in modo concreto, fisico, e con la percezione della propria basilare dipendenza da essa. Questo non è solo il caso del contadino: perfino l'escursionista può sapere cosa ciò significhi (sebbene solo occasionalmente). Ma è molto diverso dal parlare di “natura” come un concetto o una categoria astratta. Perché altrimenti stiamo parlando di una somma di alberi, animali, sassi e corsi d'acqua, ma non ci rendiamo conto che al di là di questi oggetti singoli e momentanei, si tratta di una dimensione vivente di cui siamo parte che ha simultaneamente un aspetto interno ed uno esterno, anche in noi, ma che va molto al di là di noi. E soprattutto al di là delle nostre parole e concetti. Qualcosa che non possiamo cogliere senza farne esperienza diretta: ce ne faremmo solo delle idee fuorvianti.

(5) Un altro fattore condizionante sempre presente sarà dato dalla differenza tra ciò che il sistema economico col quale abbiamo scelto di vivere ci può dare nel confronto con i prezzi di mercato e le leggi del mondo intorno noi che seguono criteri molto diversi. È un confronto simile a quello di un abitante di un paese del Terzo Mondo di fronte alle regole imposte dalla globalizzazione, il confronto tra chi vive secondo un paradigma economico, ma si trova inglobato in un sistema che funziona secondo un altro. D'altra parte possiamo considerare anche questa, finchè sussisterà come un dato di fatto più grande di noi, una condizione “ambientale”. E possiamo perfino riconoscere anch'essa non del tutto “altro da noi” in quanto, sebbene abbiamo fatto e facciamo una scelta diversa, conosciamo anche noi le pulsioni e le proiezioni in bilico tra necessità reali e necessità illusorie e indotte sulle quali fa leva tutto il sistema consumistico alimentato da chi queste pulsioni/proieioni/necessità ed illusioni segue. Noi vogliamo tenerci su un sentierio diverso, ma la mente e la psicologia umana su cui queste leve trovano appoggio e forza, le troviamo anche dentro di noi, non ci sono estranee - e proprio per questo riconosciamo il valore e la portata della nostra scelta.

(6) A parte i popoli che vivevano di caccia e raccolta. Sistema che ha preso certamente una parte molto più lunga della storia dell'umanità su questa Terra, ma che era possibile solo in stretti limiti demografici e di condizioni di vita.

(7) E forse non avrebbe potuto fare diversamente, data la minaccia costante delle potenze capitaliste imperialiste, ma il risultato non cambia per questo.

(8) Penso ai governanti di molti stati arabi, sia moderati che integralisti, tanto identitari quanto affamati dei beni di lusso occidentali; agli abitanti di zone disagiate e periferie metropolitane che vedono i capi dei clan malavitosi come i loro leader popolari e ne ammirano automobili e ville come i trofei di qualcuno di loro che ce l'ha fatta; alle stesse gang etniche cittadine che disprezzano altri ragazzi come fossero da meno, ma in fondo perché hanno ciò che loro vorrebbero avere; ai nazionalisti di ogni dove che rivendicano la gloria degli avi e che riempiranno il paese di supermercati globalizzati appena potranno far entrare i capitali stranieri lucrandoci su… E un po' penso anche ai leghisti nostrani e simili gruppi, che si richiamano risibilmente alle loro presunte origini celtiche, ma che per fare affari stenderebbero tappeti rossi a qualsiasi multinazionale americana per la quale, celti o siuox, son tutti buoni come pupazzetti di plastica per i bambini o personaggi di un nuovo gioco alla playstation.

(9) Si potrà obiettare che se tutti andassero a vivere in campagna non ci sarebbe terra né spazio a sufficienza. In primo luogo mi sento di rispondere che questi discorsi del tipo “se tutti facessero…” hanno poco senso perché in realtà mai “tutti fanno…”. Secondariamente direi che comunque, anche volendo rimanere in un quadfro ipotetico ed ideale, ci sarebbe sempre bisogno anche di centri urbani abitati in cui la gente farebbe altro che la vita contadina, ma non c'è veramente bisogno di grandi città e metropoli, né che i centri abitati diventino realtà del tutto estranee all'ambiente naturale e rurale circostante. Ad un livello, sempre molto molto ipotetico, ma più pratico, direi che prima di affermare che non c'è spazio per tutti in campagna aspetterei che tutte le terre abbandonate e recuperabili fossero state occupate, che tutte le grandi aziende estensive fossero state riconvertite e divise in una serie di piccole fattorie sostenibili e che anche le zone più remote fossero state rese luoghi abitati. Naturalmente sarebbe bene lasciare sempre dei territori disabitati come Parchi Nazionali destinati solo a protezione della Wilderness, ma sarebbe comunque sempre più sostenibile un modello di insediamenti rurali estremamente parcellizzati e diffusi a coprire tutto il territorio con tanti piccoli poderi curati e piccole abitazioni, tale da permettere un sistema di vita integrato con la natura, che vasti territori abbandonati a sé stessi dopo esser stati sfruttati fino all'osso per rifornire sterminate distese di asfalto e cemento a più piani ed una immensa popolazione urbana il cui livello di consumi non è mai pago di consumare oltre misura, sprecare ed inquinare e non ha neppure idea di dove vengano e come siano prodotti i beni di cui vive.

(10) Pur guardando ad uno stile di vita semplice, ad una società tendenzialmente egualitaria e pauperistica, la scelta neo-contadina non è l'applicazione alla realtà di un'ideale politico per il quale si debba essere necessariamente e solo in un determinato modo (anche se nemmeno qualsiasi modo può andar bene : oltre un certo limite bisogna ammettere di trovarsi su un'altra strada). Non si tratta di riesumare un'ideologia comunista sotto mentite spoglie. Si tratta soprattutto di muoversi con la propria vita (e far muovere la Società e la Storia con essa, seppure solo nella misura autentica ma infinitesimale che noi siamo) verso una certa direzione. E questo lo si fa a partire da quella che è la nostra condizione. Non è che, perché tendiamo ad una società in cui non si ha molto più del comodamente necessario, se qui ed ora le vicende delle generazioni che ci hanno preceduto ci mettono in condizione di essere ricchi questo debba essere di per sé un male. Lo è se sottraiamo i mezzi che abbiamo a disposizione ad un uso tale da migliorare il mondo e la vita di altri che hanno avuto meno fortuna. Non c'è neanche bisogno di diventare dei S.Francesco. Si può anche essere degli imprenditori e svolgere un ruolo utilissimo, come si può essere dei militanti ideologici e fare un sacco di danni. Dipende da noi, dalla nostra coscienza e dalla nostra sincerità. Bisogna guardare all'atto pratico, bisogna partire da quello che c'è e vedere le cose come stanno: se parliamo di ecologia e giustizia sociale, ma viviamo grazie a fondi azionari e speculazioni finanziarie, stiamo solo a prenderci in giro. Ma se abbiamo dei mezzi con cui possiamo fare davvero qualcosa di buono che vada più in là di noi e ce ne stiamo a coltivare un orticello o a dedicarci ad una vita spirituale, sarebbe bene che prima ci occupassimo di destinare ciò che abbiamo a qualcosa che sia di beneficio per chi ha bisogno o che ci mettessimo a gestirlo in modo positivo e saggio. Farà meglio al mondo un ricco illuminato ed impegnato anche con i suoi soldi di un povero che vorrebbe fare ma non può. Quest'ultimo non farà danno (che già non è poco), ma l'altro può far molto e allora, che lo faccia! Se uno è consapevole di come è la realtà, è sincero, coerente e di buona volontà non c'è bisogno di modelli teorici a cui sottomettersi o per cui farsi paralizzare dai sensi di colpa. Nella società che va creando un n-c non ci saranno più i presupposti per l'accumulazione di grandi ricchezze da un lato e grandi povertà dall'altro (come neanche di una uguaglianza di reddito assoluta imposta artificialmente né della possibilità di scalate sociali rapide e rampanti). Ma ciò non significa che i mezzi che troviamo di fatto oggi tra le mani non dobbiamo usarli per il meglio. Dato l'ordinamento sociale in cui viviamo e che ci ha preceduto si può a ragione sostenere che esser ricchi sia (potenzialmente) una colpa. Ma se questa ricchezza viene indirettamente da condizioni sociali non eque è proprio quello di impiegarla in progetti benefici il modo per pagare il debito di un privilegio mai meritato del tutto fino in fondo.

(11) Ad esempio, anche in una società fondamentalmente agricola e sostenibile, ci saranno sempre maestre e postini, mentre senza un sistema consumista e distruttivo, non ci sarebbero top model o progettisti di bombardieri atomici - né peraltro molti altri tra i mestieri che si fanno oggi nei paesi ricchi.

(12) Questo è il caso soprattutto quando si tratta in sostanza di un ego-trip, ovvero quando più che una ferma convinzione in certe idee, ciò che ci muove è l'affermazione di noi stessi e dell'immagine di noi che vogliamo confermare usando a questo fine le idee che portiamo avanti e a cui, superficialmente, anche crediamo.

(13) Non si tratta necessariamente di gettare tutto ciò che si ha alle ortiche e di indossare il saio. Se qualcuno vuol fare così, bene, ma non è necessario. Non dobbiamo essere dei santi e non siamo degli asceti, né dei francescani, né dei comunisti. Chi ha solo il saio parte dal saio, chi ha di più parte da ciò che ha. Il punto è restare nei limiti della ecosotenibilità radicale, coerente, quanto più è possibile (e lo è tanto più quanti più mezzi si hanno) e via via anche migliorare la propria condizione, ma in un'ottica olistica, eco-centrica, non ego-centrica. Facendo così, nel lungo termine, le condizioni economiche delle persone, pur senza mai appiattirsi, muoverebbero da sé verso un tendenziale livellamento e verso una diversificazione sociale più equa ed accettabile - anche perché, se non fosse per il martellamento del culto del successo e della ricchezza, non credo che proprio tutti ci terrebbero poi molto ad essere per forza ai vertici della scala sociale, tanto ricchi e di successo.

(14) Sono certo, d'altra parte, che per riportare l'agricoltura contadina ad essere un'opzione possibile per molte persone (oltre che per finirla con il dumping in sostegno ai prodotti alimentari dei paesi ricchi che chiudono i mercati agli agricoltori del Terzo Mondo) un aumento generalizzato nel prezzo dei cibi (che deve accompagnarsi a quello della loro qualità e genuinità) sia dovuto. Un aumento che però dovrebbe andare a vantaggio dei produttori e non, come avviene oggi, degli intermediari. Non vedo infatti nessun motivo per cui il consumatore possa trovar normale spendere cifre che nulla hanno a che fare con i costi di produzione e distribuzione reali per, ad esempio, un paio di pantaloni, una borsa, degli occhiali o un telefonino alla moda mentre continua a pensare che il cibo che mangia, che costa forse più fatica e la cui produzione, il modo, il luogo dove questa avviene, incidono anche moltissimo su tutte le questioni oggi centrali per l'ambiente in cui anch'egli vive, debba sempre costare il minimo possibile. Cosa diversa però è far diventare determinati prodotti gastronomici una moda d'elité, una sorta di status symbol con relative riviste patinate e quant'altro. Sarà certo meglio della scomparsa definitiva di certe specialità cosidette “d'eccellenza” e della conoscenza che ad esse si accompagna, ma non restituisce alla dimensione di vita contadina (che è ciò che dà molto dell' “aroma” ricercato in questi prodotti) una sua realtà, una sua praticabilità alla portata dei molti, un suo mercato effettivo e possibile.

(15) Nel mondo del lavoro attuale, flessibile/precario e globalizzato, in cui i sindacati sono più che altro un'agenzia di servizi, la solidarietà della classe operaia nella fabbrica di stile fordista o la comune identità impiegatizia nell'azienda con posto a vita di stile giapponese sono ormai solo ricordi di una fase intermedia del capitalismo, non si può parlare di un senso di appartenenza ad una comunità di lavoratori.




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