Ecofondamentalista. Riflessioni di un neo-contadino
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SULL'INTEGRALISMO ISLAMICO

In sintesi...
Il confronto coll'integralismo islamico è un'occasione per precisare cosa intendo per Ecofondamentalismo dal punto di vista filosofico.
La filosofia occidentale sembra esser giunta sostanzialmente al suo capolinea ovvero all'assolutismo relativizzante del logos in cui tutto è in definitiva discorso, in cui i dubbi si moltiplicano come in una reazione a catena atomica senza trovare e perfino rifuggendo le risposte nel vortice dell'accelerazione della Storia. Davanti - e contro - alla Storia, al contrario, l'islamismo cerca di fare muro opponendogli verità immutabili in virtù dell'esser state dette da "colui" che parla dall'esterno di essa. Anche qui, seppure in senso opposto, è la parola che prevale sulla vita.
Ma al cuore dell'esperienza vivente non ci sono parole, non c'è logos, ma ciò che il Buddha chiamava "Sunyata" (il vuoto) e che io chiamo Natura, come forma del momento presente.

(versione PDF)



Leggendo il libro “Al-Qaeda , i testi” (GLF Laterza - curato da G. Kepel ed altri) con i testi di vari integralisti islamici, mi viene da pensare che la loro forma di fondamentalismo non può essere valida e che è di poca ispirazione per la elaborazione di una visione ecofondamentalista.
Il problema principale - limitandoci ora solo al piano teorico - è che loro hanno una concezione del principio (Dio, la sua unicità e la sua legge) da prendere a fondamento che è qualcosa di fisso ed esterno. Dio è qualcuno, altro da noi e dal mondo. La sua legge, il suo volere, sono stati detti una volta per tutte e prevedono pure l'eliminazione fisica di coloro che non li seguono da parte di chi invece lo fa (o ritiene di farlo secondo quanto di questa legge crede di aver capito).
Si tratta di una visione veramente primitiva, limitata e limitante, ed animata, di fondo, dalla paura di sbagliare tipica di una educazione pesantemente patriarcale: viene da sé che può portare ad uno scarso apprezzamento della vita in quanto tale e ad un sentimento che arriva perfino a preferirgli la morte (propria ed altrui) come nel cosiddetto martirio.
In superficie c'è di apprezzabile l'atteggiamento di sottomissione della propria vita ad un principio superiore che si riconosce come qualcosa in essenza non soggetto alla dimensione propriamente umana e tale da essere e dover essere riconosciuto a monte di questa sia nella sua espressione individuale che in quella sociale, politica, economica e culturale…
Ma in un'ottica ecofondamentalista non è questo il modo in cui il 'fondamento' è fondamentale.
Diciamo che la Natura è fondamentale, ma bisogna stare attenti ad intendere bene, perché è facile cadere in un'accezione fissa ed esterna di ciò che è fondamentale.
In realtà la “Natura” non esiste : è un nostro concetto che ci serve per descriverci il mondo, ma se credessimo a qualcosa che la “Natura” è, come un “Dio”, andremmo presto a finire come gli integralisti islamici.

Se la Natura è la vera realtà del mondo non c'è un luogo ed una vera condizione di esistenza che questa realtà non sia, né questa realtà può essere definita come 'qualcosa' in alcun modo, dato che la realtà reale, non pensata, del mondo non sta mai ferma e pertanto sfugge ad una autentica definizione oggettiva ovvero in quanto oggetto.
Non può essere definita: se ne può solo fare esperienza, la si può solo essere, e la si può vedere ed anche intendere, con una certa, progressiva, approssimazione all'interno ed attraverso questa esperienza. La Natura è il momento presente: non può essere definita, ma è più vicina a noi di qualsiasi altra cosa. Siamo noi.
Vicina come il modo in cui ci sentiamo nel momento presente dentro noi stessi con noi stessi ed in relazione a ciò con cui ci rapportiamo in questo momento. Questa esperienza ha una qualità e questa qualità ci insegna qualcosa. Per coglierlo dobbiamo sviluppare l'attenzione imparziale (che si impara con la meditazione soprattutto) ed aiutarci anche con il pensiero, l'intelligenza che usa il materiale dell'esperienza/attenzione e cerca di trovarvi un ordine, usando anche insegnamenti provenienti da esperienze ed elaborazioni passate nostre ed altrui.
Progressivamente, andiamo intendendo qualcosa della qualità della nostra esperienza della realtà, vissuta nel momento presente. Affiniamo la capacità di intenderla man mano che (imparando concretamente da ciò che capiamo) adeguiamo la nostra vita alla comprensione - ancorché non del tutto definibile - che va sorgendo in noi.
Questa realtà/comprensione non è definibile in modo preciso (1), ma ha tuttavia una forma.
Non una forma fissa o definibile però: una tendenza di forma - o una forma di tendenza (2).
Gli esseri e i fenomeni della Natura - pur avendo tutta una serie di varianti che gli permettono di adattarsi in ogni momento/situazione alla realtà complessa che è poi l'interazione di tutti con tutti ovvero la natura di molteplicità e movimento della Realtà - non vivono (crescono, muoiono, si ammalano, si sentono bene….) in un modo qualsiasi, bensì secondo certe 'linee di tendenza' (se chiamarle leggi può essere troppo restrittivo).
Si tratta però di 'leggi'di una Realtà viva, del mondo, non di qualcuno che sta fuori di esso.
'Leggi' che vanno al di là di noi esseri umani, delle nostre opinioni o desideri e di qualsiasi scala temporale possiamo immaginare in qualche modo commisurata a noi ed in questo senso 'leggi' fisse o eterne, superiori a noi.
'Leggi' a cui dobbiamo adeguare la nostra vita (e non l'inverso) - ed in questo senso adottare l'atteggiamento del musulmano quanto al capire cosa esse ci dicano di fare o di non fare, cosa, nelle situazioni pratiche che di volta in volta si creano, sia o meno in linea con esse.
In questo senso queste tendenze di fondo del modo in cui funziona la Natura (e noi stessi che ne siamo parte) sarebbero altrettanto fisse e non soggette a cambiamento da parte dell'uomo delle leggi islamiche (3).
Ma c'è una sottile quanto importante differenza tra l'intendimento islamico di ciò che si può far discendere da determinate 'leggi' e quello ecofondamentalista e ciò sta nel fatto che per quest'ultimo non ne deriva tanto direttamente ciò che sia o meno in linea con esse, ma ne deriva piuttosto il modo di capire cosa lo sia e cosa no: è un discorso molto diverso da ciò che potrebbe essere applicare una sorta di tavola della legge scritta una volta per tutte da un Dio esterno.
Il punto centrale di questa fondamentale differenza non sta nell'aspetto di “fissità” del Dio/legge-islamica (4) ovvero nel rapporto principio essenziale immutabile/necessità di interpretazione e applicazione nelle diverse situazioni reali.
Il vero punto di differenza è l'aspetto di 'essere esterno' del Dio/legge islamici rispetto alla Natura come nostra autentica realtà e 'legge'.

Dal momento che la Natura è tutto ciò che c'è (si potrebbe anche dire che la realtà è la Realtà), che è il momento presente, che non è altro da noi, non può essere conosciuta come qualcosa di esterno; possiamo dire che non può essere conosciuta tout court nel senso tradizionale occidentale della parola.
Questo non vuol dire che non possiamo esserla, farne esperienza, praticarla, realizzarla ed intenderla (con una certa approssimazione) anche attraverso un certo grado di comprensione intellettuale (o meglio, di via intellettuale che ci porta alle porte di questa comprensione, la quale rimane però meta-intellettuale).
Ma siccome questa conoscenza è vissuta e si trova dentro l'esperienza (il che non significa che non possa essere progressivamente elaborata intellettualmente), non può trattarsi di una conoscenza esatta: non possiamo stabilirla in termini né strettamente scientifici, né dogmatici.
La nostra capacità di intendere la Realtà della realtà, la natura della Natura, le leggi/tendenze di fondo che sono la loro forma, l'essenza della nostra forma, progredisce corrispondentemente a quanto noi ci accordiamo (proprio in senso musicale) con essa, e questo è un fatto in primo luogo “in progress” e poi molto anche fisico e psicologico oltre che intellettuale perché in ultima analisi questa essenza, questa natura, non è qualcosa che va capito, ma realizzato.
Si tratta di realizzare una accordatura perfetta che da un lato è qualcosa di fisso ( perché il Do è sempre il Do), ma al tempo stesso è sempre nuovo e diverso e momentaneo come lo è ogni singolo suono che possiamo produrre.

Quindi la differenza con l'intendimento islamico non c'è in quanto si neghi il riconoscimento che si debba esprimere nella realtà vissuta, nei comportamenti, qualcosa (senza ora entrare nel merito di cosa) che ne sta monte come non opinabile e superiore - col rispetto che ne consegue. L'atteggiamento verso ciò è un inchino, come lo sarebbe quello del musulmano e così lo è lo sforzo di realizzarne la conseguenza in pratica a partire da sé stessi (qualcosa di analogo a ciò che l'Islam chiama la jihad interna).
Ma il punto di differenza riguarda la capacità degli umani di definire sufficientemente il modo in cui queste 'tendenze naturali di fondo' si applicano nella pratica fino eventualmente a farne a tutti gli effetti delle leggi in modo preciso e codificato e perfino tali da essere imposte ad altri.

D'altra parte noi, come esseri umani, abbiamo bisogno di trovare un ordine intelligibile e descrivibile nel mondo e quindi dobbiamo farci un quadro intellettuale delle cose. Ci è possibile (e necessario) descrivere la realtà del mondo in concetti e parole, trovandone delle verità.
Si può trattare di verità vere (quando la descrizione è corretta), non necessariamente di mere illusioni dalla realtà solo convenzionale o utilitaristica. Solo, non dobbiamo dimenticare che una cosa sono le descrizioni della realtà (per quanto corrette) ed un'altra la realtà, che non è fatta di parole, per cui queste verità sono l'enunciazione 'di massima' ed essenziale di qualcosa che esiste solo nelle innumerevoli forme in cui le situazioni complesse e varie della vita si danno di volta in volta nella realtà vissuta.
La nostra conoscenza intellettuale (necessaria e imprescindibile per vivere ma non sufficiente per vivere compiutamente) ha questi limiti intrinseci per cui va rivalutata in modo profondo la conoscenza empirica ovvero quella che si basa sull'esperienza, la propria diretta e quella altrui, almeno quando è credibile e generalizzata, e su osservazioni riscontrabili 'in linea di massima'.
Quelle di fatto così ricorrenti nello spazio e nel tempo e nei diversi contesti da potersi considerare tratti costanti della realtà almeno con una buona approssimazione/probabilità.
Con la rivoluzione moderna scientifica (supportata nelle coscienze dalle sue conseguenze tecnologiche) la percezione del mondo empirica immediata di tante realtà particolari (o aspetti particolari della realtà) è risultata spesso limitata e fuorviante. Qualcosa di limitato alle possibilità percettive dirette date dal corpo umano ed è stata screditata a favore della forma di conoscenza scientifica, della ipotesi speculativa razionale e della ricerca sperimentale.
Questa forma di pensiero che ha dato grandiosi risultati sul piano del mondo nel suo aspetto in vario modo misurabile, è stata estesa anche al piano culturale avendo l'effetto di dimostrare la base logicamente contraddittoria e perfino irrazionale (soprattutto poi anche con il contributo della psicoanalisi) di tante presunte “verità” culturali e religiose liberando così le persone da tanta oppressione sociale e da gabbie mentali che avevano per tanto tempo costretto la possibilità di gestione delle proprie vite.
Nell'abbattere attraverso questo strumento intellettuale tante false verità del passato non si è però tenuto presente che molte di esse, pur insostenibili sul piano logico, contenevano però un nocciolo di verità. Soprattutto nella loro funzione di essere vissute e dare quindi luogo ad esperienze e comportamenti che potevano aiutare le persone ad avvicinarsi ad una esperienza della verità più profonda. Anche se la descrizione teorica dei presupposti di queste esperienze poteva apparire - ed essere - inconsistente sul piano razionale. Ovvero, dentro a qualcosa che, una volta detto, era una falsità, ci poteva essere - e c'era - a volte e a monte l'intuizione o l'osservazione empirica di una verità (parliamo, nelle conoscenze umane esprimibili a parole, sempre di gradi relativi di avvicinamento alla verità, che non è mai possibile compiere del tutto).
Dato questo importante effetto liberatorio, il metodo “scientifico” è stato esteso anche alle questioni ultime e, più in generale, a tutte quelle questioni che erano state fino ad allora appannaggio della filosofia. Da allora la filosofia ha dovuto rivestire panni “scientifici”, pena la derisione in caso contrario, ma anche così deve sempre più confrontarsi con la domanda di fondo sul senso stesso della sua esistenza nel mondo attuale.

A fronte di una pretesa probabilmente impossibile da parte della scienza(5) di trovar risposte, che soddisfino le esigenze di esattezza che il suo linguaggio richiede, alle questioni di fondo sulla realtà, di fatto, nella modernità occidentale a tali domande si rinuncia ormai a rispondere.
Nell'ambito della tradizione occidentale, che ha ucciso gli dèi, ha creato la modernità dialettica, laicista e ora “liquida” (come la chiama Z.Bauman) ma non è riuscita ad andare oltre il mondo del logos, questo significa in sostanza essere arrivati al capolinea. Oltre ciò si pretende di proseguire grazie alla capacità tecnica ed i materiali necessari a costruire ponti, aerei, shuttle, ma dovrebbero protendersi nel vuoto e manca ormai chi ci dovrebbe proseguire sopra il viaggio, anche perché non saprebbe più verso dove andare né soprattutto perché - mentre, nel frattempo, è il terreno da cui si parte che comincia a sgretolarsi sotto i piedi.
Questa rinuncia a cercare una risposta ultima, fondamentale, alla realtà è mascherata, in Occidente, sotto il velo del relativismo assoluto. Un velo molto sottile, attraverso il quale è facile vedere che è fatto di parole (ancora il logos, la stoffa di sempre), che continuano a girare intorno nel descrivere come e perché, quanto e in che modo non abbia senso cercare una verità fondamentale. La trama di questo tessuto mostra l'ordito della falsa coscienza perché di troppe ripetute parole non c'è bisogno a proposito di una cosa che si sa vera e su cui tutti sembrano ormai essere d'accordo ed anche perché, se non c'è più nulla di davvero importante da cercare, perché tanta voglia di discutere? Sembra quasi trattarsi di un chiacchiericcio posto a riempire un silenzio in cui l'esaurimento della dialettica come forma di gestione/descrizione/conoscenza del mondo ci lascerebbe ancora piuttosto confusi e privi di basi.

Ben altro silenzio era quello di Buddha negli Avyakata, ovvero, appunto, le domande sulla realtà ultima alle quali egli non rispondeva nulla. Il suo silenzio era quello di chi con un dito indica la luna - e spera che non sia al dito che si guardi. Di chi, alla fine di un sermone, alza senza parlare un fiore, e a Mahakasyapa, che capisce e sorride, riconosce l'Illuminazione.
Buddha e con lui ( in gradi diversi) tanta della cultura e della conoscenza di tante tradizioni di tutto il mondo (compreso l'Occidente tradizionale) - senza dimenticare i mille momenti potenzialmente sempre a portata di mano tra le esperienze della nostra vita in cui ne apprezziamo la bellezza - indicano il passo da fare al di là del logos, per spiccare il volo, senza ponti e senza shuttle, che avrebbe potuto essere il frutto di una civiltà che, conquistando il mondo lo ha conosciuto come una cosa unica, e da tutte le sue sorgenti avrebbe potuto attingere.
Giunta al termine del logos, esaurita la sua funzione, la cultura post-moderna, che non è più solo occidentale, se vuole avere un futuro, deve andare al di là di sé stessa, trovando la Realtà della realtà, al di là delle parole, al di là dell'astrazione, al di là della Tecnica. Per questo deve mettere a frutto in positivo la possibilità, costata milioni di vite umane(6), di poter attingere l'essenziale dalle varie culture del mondo, ritrovarne i pochi elementi davvero essenziali e farne una base per una prospettiva che ci ridia lo spazio e il tempo di vivere come esseri viventi, prima ancora che come qualsiasi altra cosa.
Questa prospettiva al di là delle parole, di certo deve rapportarsi con la nostra dimensione interna, interiore, e per ciò non potrà essere qualcosa che discenda da principi astratti o moralistici fissati una volta per sempre, perché, se guardiamo all'interno di noi stessi non troviamo qualcosa di fisso.
Se siamo presenti a ciò che siamo, senza giudizio e senza fretta, incontriamo il corpo, la sensazione, il momento presente, e con ciò il nostro collegamento al mondo che ci circonda, in modo non precisamente definibile, ma concreto, non verbale, a cominciare dalle necessità di base. E qui ritroviamo la Natura di cui siamo parte.
Su questa dobbiamo basarci concretamente per ripartire(7).

Ma per questo bisogna prima fermarsi: del resto questo è stato, secondo la leggenda, il consiglio che Buddha diede al brigante pluriassassino Angulimala che voleva ucciderlo e che poi si fece monaco. Gli disse ”Io mi sono fermato, e tu?”.
Ad un certo punto bisogna fermarsi, in prima persona, capire ciò che va capito e prendere una strada, su cui proseguire passo per passo. Questo sembra poco, ed ancor meno se a farlo siamo proprio noi, come individui o a piccoli gruppi, minimi come siamo, ma è su questa via che la nostra civiltà potrebbe superare sé stessa, in qualità e durata, se non in velocità.

Il modo in cui si fermano gli integralisti islamici è molto diverso.
Davanti all'ondata destabilizzante, con cui il relativismo occidentale, senza radici, senza senso e senza orizzonti, sembra attentare alla sopravvivenza del loro universo di valori, il loro silenzio è sordo. Questa sordità vuol essere una garanzia di fermezza ed è protetta dalla ripetizione di testi sacri che gli sembra ancor più importante ripetere che comprendere.
Il loro fermarsi è blocco, è resistenza, è fare muro, alla Storia soprattutto.
Nel vedere qualcuno che ha il coraggio, l'orgoglio e la dignità di opporsi all'americanizzazione del mondo e alla sua trasformazione in un grande supermercato di beni usa e getta, in nome della propria tradizione e senso del sacro e che è pronto a pagare per questo, non posso spontaneamente non avere un istintivo moto di simpatia.
Ma, al di là di questo, non ci può essere altro che ci accomuna: il loro senso del sacro non è il mio.
La loro idea di un Dio fisso ed esterno non sarà protetta da nessun muro, per quanto sangue vi ci verseranno sopra. Il vento del Divenire si porta via tutto e soffia ovunque, specialmente dall'interno di noi stessi dove scorre la Vita, a cui non si può preferire la morte.
E' proprio di questo vento, di questa vita, del movimento che gli è proprio che occorre fare il proprio fondamento.
Gli islamisti non ne vedono il movimento, i relativisti modernisti non ne vedono il fondamento.
Personalmente non vedo un gran futuro per entrambi.




NOTE:
(1) Questo ha un corrispettivo nel principio islamico di non raffigurare Dio in alcun modo. Ma poi, per converso, la loro pretesa di poter, in base alle parole del Profeta, stabilire in modo così fisso e preciso ciò che Dio vuole e non vuole, contraddice nei fatti l'intuizione profonda che sta dietro questo principio.
(2) Così come nella fisica quantistica gli elementi che determinano i fenomeni possono essere descritti solo in termini probabilistici e, alternativamente, o come particelle o come onde.
(3) Ed anzi, nella realtà vera, fuori da questo discorso, lo sono senz'altro molto di più non trattandosi di idee o di parole - e d'altra parte anche per le prescrizioni islamiche c'è tutta una fioritura di scuole di pensiero e singoli eruditi che fanno testo su una varietà di interpretazioni secondo cui tali leggi debbano essere intese nella loro applicazione alle realtà fattuali.
(4) E a ben vedere questo discorso si potrebbe fare altrettanto per il Cristianesimo ed anche per molte ideologie laiche - pur dovendo tener conto delle varie differenze non però essenziali nella prospettiva in cui ora stiamo procedendo.
(5) Vedi anche la regressio ad infinitum nella ricerca da parte dei fisici subatomici di particelle sempre più elementari e sempre più “ultime”.
(6) Ciò è possibile solo dopo tutte le guerre, la colonizzazione, i disastri globali che, tra le tante altre conseguenze, hanno messo a disposizione di chi la vuole e la può studiare, la conoscenza dei molti modi diversi di pensare e vivere il mondo dei vari popoli, e del mondo come l'ambiente globale dell'umanità. E insieme a questo la possibilità, grazie ad una mentalità razionale, di distinguere in tutte le tradizioni, ciò che è essenziale ed attuale da ciò che è contestuale e specifico.
(7) Questo è un po' l'inizio di quella che io chiamo la via ecofondamentalista, in cui ciò che è fondamentale c'è, ed è molto fermo, ma non è dicibile, e con ciò può prendere diverse forme, quelle possibili sulla propria strada, ovvero quelle che si muovono tra la coerenza con lo spirito che la anima e la realtà di fatto delle circostanze.





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