Ecofondamentalista. Riflessioni di un neo-contadino
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COSA VUOL DIRE ESSERE ECOFONDAMENTALISTA

In sintesi…
Ciò che intendo con Ecofondamentalismo significa fondarsi con un sentimento sostanzialmente religioso sulla Natura, ma non una Natura idealizzata o spiritualizzata, bensì sul mondo vivente, fisico/energetico da cui nasciamo e che va infinitamente al di là di noi.
Questo basarsi su qualcosa di non dipendente dalle opinioni personali, dalle mode ideologiche, da valori culturali, umani, si pone in netta rottura con la modernità occidentale.
Questo ha le sue chiare conseguenze anche sul piano delle questioni della politica internazionale e del cosiddetto “scontro di civiltà” in cui l'Occidente si confronta con culture a loro volta (per quanto in modo spesso molto diverso dal mio) fondate su verità considerate non relativizzabili. Ne consegue la totale estraneità di un ecofondamentalista verso le chiamate dell'Occidente a far “fronte comune” di fronte alle minacce esterne o al riconoscersi parte di una “stessa barca” davanti alle prospettive di crisi.
Tale estraneità si esprime altresì in una critica profonda alla modernità riconoscendo le tradizioni della destra e sinistra politiche come le due facce del processo dello sviluppo/sviluppismo approdato oggi al pensiero unico del consumismo e all'omogeneizzazione delle persone nella figura del consumatore-massa.
Nel distaccarsi dalla dicotomia destra-sinistra e dal piano astrattista-culturale tipico dell'Occidente moderno anche l'alternativa a cui si rivolge l'ecofondamentalista è diversa (sebbene non incompatibile) con quella di molti movimenti ambientalisti in quanto mette in secondo piano l'impegno ad esercitare una pressione sulla politica e sulla società ed invece al centro una prospettiva molto diretta, pratica ed (in principio) individuale che si basa su scelte di vita concrete e personali e sull'atteggiamento proprio di tradizioni che guardano a riferimenti (in principio) a-storici quali quella della meditazione zen. In questo quadro la Natura è il momento presente, la forma che esso prende di momento in momento, l'unica realtà. Sempre mutevole, ma ugualmente al di là della caducità delle nostre illusorie creazioni culturali quanto ciò a cui usiamo dare valore di eternità.

(versione PDF)

Essere ecofondamentalista significa avere al centro della propria visione del mondo non noi stessi, non l'essere umano, né come individuo, né come gruppo sociale, né come specie, ma la Natura, l'Ecosistema del quale siamo solo una parte.
Significa che alla base del nostro atteggiamento e comportamento nella nostra vita come individui e società c'è un inchino, un riconoscimento di qualcosa di più grande di noi sia nella realtà sia nella possibilità di comprensione, nel quale noi non abbiamo altro ruolo che quello di vivere nel modo che ci è più proprio.
Capire a tutti i livelli qual è il modo che ci è più proprio come esseri naturali, umani e individuali e realizzarlo è l'avventura della nostra vita ed è tutto un viaggio da scoprire, ma la base di questo è certa ed è il fondamento di ogni altra cosa: il nostro posto è all'interno della realtà della Natura, che è più grande di noi, con la quale non siamo solo in rapporto, bensì di cui siamo inscindibilmente parte e nella quale perciò dobbiamo fondamentalmente inserirci in una posizione di armonia.
Essere ecofondamentalista significa credere che la vita individuale così come la vita delle società, quindi gli indirizzi politici, economici, delle produzioni e dei consumi, le leggi, la filosofia e la cultura devono fondarsi su questa visione.
Essere ecofondamentalista è una prospettiva che, pur avendo importanti conseguenze sul piano politico ed economico, ha un carattere essenzialmente religioso ed è per questo che, molto prima di approdare ad espressioni su un orizzonte sociale, si realizza in scelte di vita personali. Anche perché come religiosità è rivolta all'immanente, non al trascendente: non cade nell'utopia intellettualistica e nel fascino del domani da costruire facendo altro oggi. Al contrario riconosce il sacro nella realtà vivente, non in una “natura” idealizzata, ma nel concreto processo del divenire continuo, con le sue “leggi” e caratteristiche, che è il manifestarsi della realtà naturale in cui viviamo all'infuori della quale nulla esiste e che vive solo nel presente.
Riconoscere il sacro in questa Realtà, in questo Presente, così com'è in natura, è la religiosità di cui parlo.
Si potrebbe dire che se questo “sacro” sta proprio nell'incessante infinito divenire sempre presente, questo in sé stesso trascende la Terra, l'ecosistema e la natura così come la conosciamo: se ragioniamo dal punto di vista dell'universo, questa un tempo non c'era, un tempo non più ci sarà.
Questo è vero, ma, portato a questo punto, il discorso diventa troppo una religione.
L'atteggiamento ecofondamentalista ha un'essenza religiosa, ma non è solo o del tutto una religione, non in questo senso almeno.
Il “sacro” lo riconosce veramente nel divenire vivo e presente, nella natura vera, non in quella teorica, per cui la Natura a cui apparteniamo nella nostra esperienza su questa Terra sia come individui, fino all'orizzonte “come specie”, è quella che conosciamo come ecosistema, biosfera di questo pianeta (alberi, animali, piante, pioggia, laghi, fiumi, montagne…..), con le sue leggi o caratteristiche costanti di funzionamento ed i suoi limiti in cui possono vivere in relativa armonia tutti i suoi vari aspetti ( tra cui le varie specie viventi, tra cui noi esseri umani) con le proprie caratteristiche ed esigenze costanti.
Questa è la realtà di cui siamo parte e solo qui possiamo trovare la realizzazione della nostra esistenza e solo attraverso questa riconoscere il Sacro.
L'idea di rivolgerci ad un' “essenza” o “spirito” della Natura che vada oltre questo o la prospettiva che un giorno la specie umana potrebbe lasciare questo pianeta per vivere altrove e in altro modo nell'universo sono solo vana teoria.
L'Ecofondamentalismo dunque si rivolge a qualcosa che (all'interno dell'orizzonte temporale che ci interessa in quanto esseri umani) non è, in sostanza, soggetto ai movimenti e mutamenti della Storia: la Storia è un fenomeno peculiarmente umano e, nella sua concettualizzazione, un'idea originariamente occidentale.
L'Ecofondamentalismo invece non affonda le sue radici su qualcosa che è parte della dimensione propriamente umana bensì su qualcosa di cui la dimensione umana è parte.
Infatti il prefisso eco- serve essenzialmente a distinguere questa visione del mondo da altre e diverse che portano anch'esse l'aggettivo di fondamentaliste, ma altrimenti, dato l'intento di rivolgersi, con atteggiamento religioso, a ciò che è a fondamento dell'esperienza umana, oggi come ieri, su questo pianeta, si potrebbe parlare, a buon diritto, anche solo di Fondamentalismo tout court.

Una cosa che traspare chiaramente dal suo nome è che l'Ecofondamentalismo è un atteggiamento profondamente antioccidentale. Questo non significa che si tratti di una posizione vicina a quella , ad esempio, degli integralisti islamici oppure che si tratti di un pregiudizio più o meno razziale verso i popoli occidentali o di un'odio personale contro gli individui che gli appartengono.
Si tratta invece di riconoscere il fatto oggettivo che lo stile di vita occidentale ( a partire ovviamente da quello statunitense) è ciò che oggi rappresenta il cancro del mondo: di gran lunga il più grave pericolo per una condizione armoniosa della natura su questo pianeta e per le condizioni di vita e la stessa sopravvivenza di moltissime specie viventi a cominciare dalla nostra e certamente già da tempo per la gran parte degli individui che ad essa appartengono e che vivono nei paesi più impoveriti.
Lo stile di vita occidentale è distruttivo e pericoloso per il pianeta e per l'Umanità stessa sotto innumerevoli punti di vista tra cui:
- l'enorme consumo di risorse primarie con il conseguente inquinamento da carbonio ed altre sostanze nell'aria e nelle acque;
- la deforestazione e la perdita dello strato fertile nel terreno;
- i mutamenti climatici, il riscaldamento globale e specialmente della temperatura degli oceani e l'innalzamento del loro livello;
- la disastrosa perdita di biodiversità;
- l'immissione in natura di specie transgeniche le conseguenze della cui presenza e dei cui incroci con altre non sono prevedibili;
- la riduzione delle acque potabili disponibili;
- la sproporzionata disparità di condizioni di vita e di accesso alle possibilità di sviluppo tra alcuni popoli ed altri;
- una politica di speculazione finanziaria ed industriale che provoca senza ritegno guerre, catastrofi umanitarie ed ecologiche, migrazioni e carestie ricavando profitti sia dai disastri che dalle ricostruzioni e lasciandosi dietro le macerie materiali ed umane;
- una politica di controllo militare e politico dell'intero pianeta tesa ad assicurarsi costantemente le risorse necessarie al proprio modello di sviluppo al prezzo più basso possibile;
- la distruzione di tutte le culture tradizionali radicate nei propri ecosistemi sia fuori che dentro i paesi occidentali;
- una funzione di modello e di traino sul piano sia economico che culturale in una corsa all'imitazione del proprio stile consumistico ed ecodistruttivo nei confronti di tutti gli altri paesi del mondo;
- una omologazione culturale e tecnologica di tutto il mondo ad un unico modello sempre più privo di radici e di identità;
- la repressione attraverso gli apparati polizieschi, ma ancor più l'esclusione attraverso quelli mediatici di tutte le voci che esprimono reali alternative possibili;
- la falsificazione e l'uso strumentale di ogni valore di giustizia e verità per coprire meri interessi di profitto ed egemonia con la conseguenza di una generale disillusione e sfiducia in qualsiasi valore;
- una generale tendenza alla superficialità, ed una visione della vita per cui solo il successo personale in chiave consumistica conta qualcosa ovvero poco anch'esso in realtà essendo questo un atteggiamento mentale che porta presto o tardi inevitabilmente alla depressione, alla profonda mancanza di senso, al rifugio in sostanze palliative intossicanti, a malattie ed atteggiamenti nevrotici;
- abitudini alimentari e stili di vita dannosi, avvelenanti, affrettati, in cui l'apice del progresso e dell'accumulazione dei frutti del cosiddetto benessere si trasformano in una schiavitù dell'essere inevitabilmente parte di un ingranaggio più grande di noi che noi stessi abbiamo contribuito a costruire;
- un pervasivo senso di inutilità di noi stessi e della vita, di impotenza di fronte a ciò che noi stessi abbiamo creato, di inimmaginabilità di alternative realmente praticabili, del valore solo nominale di ogni principio, accompagnato dalla consapevolezza che nessuno, a cominciare da noi stessi, ci crede davvero, non al punto comunque di pagare qualcosa di persona.

Questo è solo un elenco parziale e di massima, ma più che sufficiente a capire che lo stile di vita occidentale attuale, da un punto di vista ecofondamentalista, non sia altri che “il Sistema”, “il nemico”.
Per cui essere un ecofondamentalista significa sentirsi del tutto estranei ad un tale Sistema ed in nessun modo solidali con esso, con chi lo rappresenta e con chi lo difende, qualsiasi cosa gli possa accadere. Per essere più chiaro dirò, ad esempio, che l'attacco alle Torri Gemelle dell'11 settembre 2001 così come tutti gli attacchi di guerriglia agli americani e gli altri occidentali in Iraq e in Afghanistan, così come il sempre più crescente e generalizzato odio antioccidentale che cresce nel mondo, non sono altro che l'inevitabile conseguenza del ruolo che gli USA e l'Occidente in generale svolgono nel mondo. E sono atti del tutto legittimi dal punto di vista di chi li compie e dei molti di più che a questi si sentono vicini.
Ecco: dal punto di vista dell'ecofondamentalista la legittimità riconosciuta da questi ultimi non è meno valida di quella degli occidentali che pretendono di rappresentare la democrazia e la libertà (soprattutto quella del mercato fintanto che le condizioni gli sono favorevoli), anzi, semmai lo è di più dato che la situazione attuale non è che lo sviluppo di un processo iniziato con la colonizzazione del mondo da parte degli occidentali e proseguita sulla stessa linea. Sono gli occidentali che hanno fondato la propria ricchezza - quel benessere che gli permette oggi la pretesa di insegnare democrazia e libertà - sul colonialismo (a partire dalla conquista delle Americhe quando l'Europa ha cominciato a prevalere sulle altre grandi civiltà mondiali). E sta quindi agli occidentali rinunciare ai loro privilegi (rapinati ai paesi del Terzo Mondo) in cambio di pace, sicurezza e stabilità per tutti, non a chi finora ha sempre subito e non ha più niente da perdere.
L'obiezione per cui chi affronta oggi l'Occidente con maggior determinazione ed efficacia, cioè gli integralisti islamici, non siano affatto motivati da obiettivi di maggior equità nel mondo e che se si trovassero al posto degli occidentali non si comporterebbero meglio di loro è con ogni probabilità giusta, ma non è questo il punto.
Il punto è che in questo passaggio storico dello scontro con l'Islam estremista l'Occidente si trova davanti ad un assaggio dell'esplosione delle contraddizioni che il proprio dominio militare, economico e culturale come modello unico, la propria illimitata voracità consumistica, ha creato nel mondo, al di là di quali siano le vere motivazioni di chi lo combatte.
L'Occidente davanti a questi attacchi di tipo terroristico, diffusi, imprevedibili, indifferenti a pressioni e controllo sui governi, capaci di destabilizzare le maggioranze politiche e la fiducia nel mercato, si trova a scegliere se rassegnarsi a cambiare modello di sviluppo e di comportamento nei confronti del resto del mondo o trincerarsi sempre di più in un claustrofobico sistema di sicurezza e guerra permanente in cui le muraglie erette a difesa del proprio presunto benessere gli si stringeranno addosso come le pareti della propria prigione sempre meno confortevole, meno godibile e, nonostante tutto, meno sicura. Tutto ciò senza neanche prendere in considerazione i problemi ambientali che comunque non tarderanno a farsi sentire.
Davanti a tutto ciò il punto di vista di un ecofondamentalista non è di appoggio ai terroristi islamici: non lo può essere almeno nel senso dell'appoggio attivo. Non lo può essere per ragioni di merito perché il mondo o le nazioni che essi vorrebbero costruire non sarebbero certo migliori di quello attuale e non lo può essere per ragioni di metodo perché l'assassinio indiscriminato di persone uccise a caso, nel mucchio, solo perché di nazionalità occidentale, ma a volte neanche quello, con la sola colpa di trovarsi lì nel momento in cui scoppia la bomba, non può essere appoggiato.
Però l'atteggiamento di un ecofondamentalista non è neppure di condanna nei loro confronti, mai di solidarietà con l'Occidente: l'Occidente non è in condizione di condannare chicchessia finché non smette di svolgere il ruolo che sta svolgendo nel mondo.
Dunque l'ecofondamentalista spera che gli attacchi a cui l'Occidente è ora soggetto e a maggior ragione una qualche sconfitta, lo inducano a riflettere sul proprio ruolo nel mondo, a fare una severa autocritica e a cambiare rotta, a partire dai popoli, se non dai governi.
Dunque l'ecofondamentalista non prenderà parte in nessun modo allo scontro tra terroristi islamici ed Occidente perché gli è estraneo, sia nel metodo che nel merito, ma in cuor suo auspicherà una sonora sconfitta politica (che probabilmente dovrà passare anche per parziali sconfitte militari) dei gruppi di potere (vedi neo-con statunitensi e chi li segue nel resto del mondo) che più ciecamente difendono l'attuale modello di sviluppo e di potere planetario occidentale.
Per questi gruppi di potere, per le persone che ne fanno parte, che li difendono e che li appoggiano, un ecofondamentalista non sente nessuna pietà, nessuna simpatia, nessuna solidarietà anche solo umana: sono le persone che per potersi permettere una vita dai consumi sfarzosi e l'ego-trip di un potere senza limiti, di un successo che non conosce ostacoli, dell'illusione di una presunta missione nel mondo che si regge su un cumulo di menzogne acumulate per generazioni, sono pronte a massacrare milioni di persone innocenti. Sono coloro che stanno distruggendo la bellezza e la varietà delle forme viventi su questa Terra solo per aumentare ancora un po' la loro smisurata capacità di spreco. Per queste persone e per chi le appoggia non c'è pietà: se qualcuno, chicchessia, avesse il coraggio e la capacità di toglierli ad uno ad uno di mezzo, in qualsiasi modo, un ecofondamentalista non avrebbe altro che da rallegrarsene.
Questo per dire che, in linea di principio, l'ecofondamentalista non è un pacifista; riconosce la realtà del conflitto e, almeno a livello di opinione, non è equidistante: se per risolvere i problemi bastasse eliminare un'elìte al potere, cercherebbe di farlo, con ogni mezzo necessario.
Se bastasse.
Il fatto è però che la Storia dimostra che questo non basta e che i fattori che mantengono uno stato di cose sono molto più complessi, e che i processi di reale cambiamento sono necessariamente molto lenti e, credo anche, che ogni popolo ha il governo che si merita. Per cui all'atto pratico, e almeno nel contesto di una società sviluppata, democratica, occidentale, un ecofondamentalista segue una strada non-violenta.
In paesi meno sviluppati, sottoposti ad un dominio straniero o a dittature fasciste che impediscono violentemente le libertà basilari, tra cui quella di garantirsi un'esistenza materialmente sufficiente, ci sono livelli più immediati e grossolani di scontro e di liberazione da ottenere per cui il ricorso alle armi può essere necessario. Ma in quei contesti c'è pure molta gente che è pronta a prendere le armi ed è pronta a pagare con la vita il prezzo della propria lotta. Ci sono molte persone pronte a questo quando l'oppressione arriva a rendere difficile la realtà concreta, immediata, della vita quotidiana, in altre parole quando ci si sente al punto di non avere più molto da perdere. Oppure questo può accadere anche presso società in cui è molto forte e viva la fede in valori talmente sentiti come importanti che vengono messi anche di fronte alla propria vita.
Se guardiamo al mondo e alla Storia vediamo che entrambe queste condizioni si presentano solo fino ad un certo livello di ricchezza(/povertà) diffusa di un popolo, ma quando il livello di ricchezza cresce oltre un certo limite, la disposizione a rischiare la propria vita o incolumità nella lotta per un ideale o obiettivo sociale o politico diventa molto rara, propria solo di pochissime persone particolari. La maggior parte della gente, per sbagliate o ingiuste che siano le cose, ha comunque abbastanza da perdere per rovinarsi per qualcosa che pur sempre si presenta come astratto e incerto, tanto meno degno di fede ceca e di sacrificio personale quanto più cresce, insieme alla ricchezza, l'istruzione e la sottigliezza intellettuale delle persone.
Insieme a ciò avviene pure che, oltre un certo livello di sviluppo, il potere stesso non si fonda più in primo luogo sulla politica e la forza militare: non che vi rinunci, ma nel momento in cui vi ricorresse in modo sistematico si troverebbe a regredire ad uno stato meno sviluppato e quindi meno ricco. Infatti il potere attualmente si basa sull'economia: non ottiene più la ricchezza attraverso la forza come anticamente, ma la forza attraverso la ricchezza.
E questo avviene attraverso la persuasione. Di fatto la persuasione si esplica attraverso la cultura, ma si fonda su un patto implicito nella società moderna democratica: in fondo in fondo dobbiamo sentirci tutti sulla stessa barca e tutti dobbiamo remare, magari ognuno a modo suo, più piano o più veloce, più diritto o più storto, una volta ogni tanto, col remo di altra forma o colore, magari dicendo intanto che sarebbe meglio remare in un'altra direzione, ma ciò che più conta è che dobbiamo sentire questa essenza di “essere-remante-su-questa-stessa-barca-comune” come connaturata a noi stessi, come la nostra vera natura: tutti già stavano remando quando siamo nati, a quel che ne sappiamo e, per parafrasare Croce, non possiamo non dirci 'remanti'.
In virtù della nostra partecipazione, in qualsiasi modo, alla barca e al suo viaggio, possiamo accedere ad una parte, virtualmente illimitata, della ricchezza che questo comporta.
In altre parole: con lo sviluppo tecnologico ed economico da un lato e la democrazia dall'altro, tutti i cittadini sono uguali - non in quanto esseri viventi o umani, ma in quanto cittadini ovvero che si definiscono in base ad alcune nozioni fondamentali proprie di una civiltà, di una cultura, di un apparato di leggi - ed in modo uguale possono accedere alle sorgenti ed ai frutti della ricchezza e del potere. Ma questo non avviene nel vuoto: avviene in un contesto storico in cui già esiste chi ha in misura diseguale ricchezza e potere: il processo storico della modernità ha abbattuto la barriera tra chi aveva e chi avrebbe potuto/voluto avere.
Il patto che regge la società moderna è questo: “abbiamo inventato la 'Società', se ne fai parte, puoi accedere anche tu alla ricchezza e al potere, o almeno alla loro possibilità”. *
Non intendo dire che ci sia o ci sia stato qualcuno che abbia orchestrato ad arte chissà che complotto storico: niente affatto, dico proprio che è un patto implicito, intrinseco al prodursi della società occidentale moderna.
A partire da questo patto implicito la dialettica storica e politica dei due secoli passati ha ruotato tutta intorno alla questione della possibilità, della gradualità o meno, dell'accesso pieno alla ricchezza e al potere da parte di chi non ne aveva, con la reazione di chi ne aveva e voleva tenerseli ed accrescerli, e tutta la questione dei principi, i valori e le giustificazioni relative a questo accesso.
Da questo punto di vista la prospettiva liberale e quella comunista differiscono sulla questione della gradualità dell'accesso: gli uni la ritenevano necessaria e giustificata relativamente alle capacità imprenditoriali individuali, gli altri ritenevano necessario e giustificato un salto netto che la superasse e rendesse immediato e generalizzato l'accesso.
Ma entrambe le ideologie non mettevano in questione il patto implicito sottostante. La questione dirimente fra i due è stata l'interpretazione dell'importanza dei fattori Lavoro e Capitale.
Mentre, in una economia agricola, nella produzione della ricchezza il possesso o l'uso delle risorse naturali come la terra, l'acqua, le piante, gli animali hanno un ruolo importante perché , insieme all'uomo, la natura fa una parte significativa del lavoro, nell'economia industriale all'origine la ricchezza è pressoché interamente prodotta dal lavoro dato che le materie inerti di per sé non svolgono nessun processo. Solo che i profitti prodotti dal lavoro ed accumulati producono il capitale, con questo si ottiene la proprietà dei mezzi di produzione e facendo lavorare alla produzione altre persone con questi mezzi si realizza un plusvalore che aumenta il capitale e così via.
Secondo i liberali essendo il capitale sempre lavoro accumulato i capitalisti erano comunque una classe produttiva, utile, della società ed era giusto che avessero un ruolo dominante perché dimostravano di saper valorizzare sia le risorse che il lavoro altrui. I lavoratori potevano accedere alla ricchezza in virtù del loro lavoro e della loro abilità: se ne fossero stati capaci sarebbero potuti salire nella scala sociale e diventare a loro volta capitalisti. Secondo i comunisti però la ricchezza, essendo alla origine prodotta sempre dal lavoro, doveva rimanere nelle mani di chi questo lavoro lo svolgeva e con essa il potere che doveva essere tolto a chi lo aveva costruito sull'accumulo di un plusvalore visto come una usurpazione.
Di fatto, superata una fase molto iniziale del capitalismo, il capitale, come Marx stesso aveva predetto, tende a svincolarsi dal lavoro ed inizia a diventare di per sé produttore di ricchezza. E' come se, raggiunta una certa massa, acquistasse una forza di gravità che attrae nuovi capitali e più aumenta e più ne attrae in virtù di questa forza che si basa sulla fiducia, sulla scommessa che ciò che finora è cresciuto continuerà a farlo.
Questo è potuto avvenire perché nel frattempo, mentre in Unione Sovietica l'opzione comunista rivoluzionaria aveva vinto sul piano militare, in Occidente, per evitare lo stesso esito, si intraprese la via socialdemocratica, del welfare, della contrattazione, del compromesso che riuscì ad impedire che lo scontro di classe avesse conseguenze rivoluzionarie.
Concedendo via via diritti sindacali ed aumenti salariali, garanzie socio-assistenziali, si redistribuì parte della ricchezza a livello di massa e questo determinò una generalizzata disponibilità di denaro pronto per i consumi, gli investimenti e l'inflazione.
E così, mentre apparentemente la classe operaia otteneva delle conquiste, il capitale compiva il suo decisivo salto di qualità mentre il patto implicito fondamentale di cui sopra si perfezionava: le classi ex-operaie, ex-proletarie, sono diventate la massa, la gente, accolta a pieno titolo nella “stessa barca”, ma non più tanto in quanto lavoratori-produttori - quello è ormai secondario (tanto è vero che le società più ricche si permettono anche il “reddito di cittadinanza”) - bensì in quanto consumatori.
Oggi è in quanto consumatori che facciamo la nostra parte di rematori nella barca comune, non producendo: a quello ci pensano nei cosiddetti “paesi in via di sviluppo”, definizione che, in questo quadro, direi piuttosto appropriata.
E' in quanto popolo di consumatori che abbiamo superato storicamente la minaccia della dittatura, del fascismo esplicito, dello Stato di Polizia. E' per non aver potuto disporre di un popolo di consumatori che il sistema dell'Unione Sovietica è crollato: non mancava la produzione, quella c'era e a buon prezzo, ma l'elìte politica di quel sistema se anche non avesse tenuto per sé il capitale prodotto dal lavoro dei cittadini sovietici, ne ha trattenuto il potere legando troppo la possibilità di consumi della gente a privilegi politici o alla pianificazione e comunque non a criteri mercantilistici e dinamici. E così è crollata; non in un confronto militare, ma per lo sfaldamento interno della sua base: quel popolo su cui era stato costruito tutto l'edificio e a cui non bastava più di essere operai uguali, ma volevano anch'essi diventare consumatori, uguali, come tali, a quelli del resto del mondo, ma diversi per reddito tra di loro.
Impegnata in un confronto fondamentalmente militare, ma per il quale servivano immensi capitali, con gli USA, l'URSS, che non ha saputo produrre quel dinamismo commerciale e finanziario che solo in un consumismo sfrenato può trovare alimento sufficiente, non ha saputo far altro che soccombere.
E le stesse elìtes politiche, giunte a quel punto, non hanno tentato inutili resistenze contro la Storia: non avevano individuato per tempo la soluzione necessaria e infatti la nuova Russia ha mosso i suoi primi passi in un caos di capitalismo selvaggio in cui gli unici elementi che hanno potuto dare una forma alle cose sono stati di stampo gangsteristico dato che potevano muoversi in una terra di nessuno, da un punto di vista capitalistico, in cui valeva solo la legge del più forte.
Davanti all'affacciarsi di situazioni simili una resistenza l'hanno tentata le elìtes politiche cinesi con la repressione di piazza Tien Han Men, ed hanno avuto successo, ma proprio perché, insieme alla repressione, avevano già avviato quelle riforme che hanno fatto oggi della Cina la nuova frontiera del consumismo.

Dunque è in quanto consumatori che noi oggi remiamo per la barca comune, in quanto consumatori siamo i mattoni che fanno da base all'edificio. Consumatori di qualsiasi cosa, anche di fondi di investimento, di prodotti finanziari, di informazione, di spettacolo, di cultura (degna o meno di questo nome); perfino la nostra attenzione, un po' distratta, ad un messaggio pubblicitario è merce che viene venduta e sulla probabilità della quale si ottengono prestiti, si fanno investimenti, si scommette in borsa. E' sempre più su basi così fragili che si regge l'economia mondiale, che poi è l'economia dei paesi ricchi.
Oggi che in questi paesi la maggior parte dei posti di lavoro è nel terziario, magari avanzato cioè più lontano dai settori strutturali della produzione, basterebbe una appena significativa riduzione dei consumi per dar luogo a crisi economiche e sociali dalle conseguenze a dir poco preoccupanti.
E quindi ci vuole ottimismo: bisogna comprare, desiderare le ultime novità e comprarle, buttarle e comprarne di nuove, se no l'economia non gira ed è un problema per tutti.
Per ottenere petrolio e materie prime a prezzi stracciati si fanno guerre e milioni di morti e si mettono le basi per ulteriori future carneficine, ma se l'insicurezza che ne consegue arriva a mettere in forse la fiducia nei consumi e nella circolazione di capitali, lì si trova il punto in cui tutto si può fermare: viene a mancare lo scopo, il gioco non vale più la candela, almeno finché l'effetto depressivo sussiste. Si può rimandare (la guerra, l'azione militare o generatrice di tensione) a qualche anno dopo: bisogna tenere alto il morale.
Perciò noi occidentali non abbiamo dittature e non ne avremo almeno finché non ci saranno crisi economiche di portata storica. Possiamo permetterci il dissenso ed il cambio dei governi, tanto, quelle tra gli opposti schieramenti partitici maggioritari, sono sempre più differenze essenzialmente di sensibilità culturale, ma la politica economica di fondo è essenzialmente la stessa. Le libere elezioni, la libertà d'opinione non costituiscono un pericolo: i partiti che propongono alternative relativamente radicali (peraltro tradizionalmente divisi tra di loro) si mantengono, nei paesi ricchi europei, entro un fisiologico 10% - e spesso meno - (negli USA si trovano in quantità omeopatiche) ed è estremamente improbabile che trovino i voti necessari per governare ed abbastanza a lungo per mettere in pratica davvero i loro programmi.
Del resto un autentico cambiamento passerebbe necessariamente per un sensibile ridimensionamento del tenore di vita ovvero dei consumi rispetto agli standards attuali: questo è inevitabile se si vuole ridurre l'impatto ambientale e permettere migliori condizioni di vita nei paesi del Terzo Mondo. E questo comporterebbe o grandi perdite di posti di lavoro o un abbassamento dei salari e quindi dei prezzi e quindi dei profitti e quindi di nuovo dei salari o dei posti di lavoro per giungere ad una statalizzazione d'emergenza della produzione.
Questo sarebbe inevitabile se si volessero garantire condizioni di vita e di lavoro eque e paritarie a tutti i popoli del mondo e condizioni di produzione e smaltimento di beni e servizi realmente compatibili con l'ambiente in tutto il mondo.
Ma un partito che si presentasse con programma di governo che puntasse a far realmente qualcosa per garantire questi obiettivi senza nascondere il prezzo da pagare non otterrebbe certo un successo elettorale.
Sarebbe considerato peggio che massimalista, ideologico, utopista, sarebbe fuori dalla realtà, gli si direbbe che non sono più i tempi di un secolo fa e non ci sarebbe neppure bisogno di chiudergli la bocca o il giornale.
Nelle nostre società possiamo avere scontri politici, anche aspri, polemiche sui giornali e qualche carica della polizia sui più scalmanati, ma non andiamo oltre: possiamo permetterci di scaricare altrove le nostre contraddizioni e farne pagare il prezzo ad altri.
No, non abbiamo più il pericolo di una dittatura finché va così: siamo noi la dittatura, soprattutto economica, sul Terzo Mondo.
D'altra parte così come non c'è il pericolo di una dittatura, non c'è nemmeno quello di una rivoluzione: da noi nessuno si fa più ammazzare per cambiare il mondo. E per tentare una rivoluzione senza aver la certezza di farsi ammazzare o comunque rovinarsi la vita inutilmente, per aver qualche concreta speranza che ne valga la pena, bisogna essere in tanti, avere un forte seguito.
Ma il credo dello sviluppo è ancora troppo seguito nelle nostre società e non appare probabile che sorga in modo sufficientemente generalizzato la volontà di riconvertire il nostro stile di vita e sistema economico a misura sostenibile per il nostro pianeta e per noi tutti che ci viviamo - con le conseguenze che ciò comporterebbe - prima che gli effetti di ciò che è stato fatto nell'ultimo secolo e mezzo si facciano sentire chiaramente in tutta la loro drammaticità - cosa che , del resto, non è più molto di là da venire.

Dunque, davanti a tutto ciò, l'atteggiamento ecofondamentalista non è necessariamente estraneo alla speranza ed eventualmente all'iniziativa che tenta di costruire movimenti e campagne politici e di opinione per porre un qualche rimedio sul piano della società e delle istituzioni, ma è in primo luogo concentrato sull'urgenza di iniziare direttamente questo cambiamento in prima persona sulla propria vita.
Il problema è che la nostra cultura astrattista ha creato la situazione attuale e c'è il forte rischio che non lo risolverà senza fare un netto cambio di binario. Voglio dire che, sia da parte degli attivisti militanti, nella chiave di un ideologismo a volte grossolano, che da parte degli intellettuali pur meglio motivati, a causa di una sofisticatezza che rischia di girare, all'atto pratico, troppo su sé stessa, mi sembra che manchi qualcuno che semplicemente azioni la leva che impedisca al treno su cui tutti ci troviamo di schiantarsi sul binario morto verso il quale stiamo correndo.
Ora è evidente che questa leva in grado di fermare il treno non viene azionata anche perché non c'è, ma ciò che forse non è altrettanto chiaro è che, mentre la corsa e lo schianto sono reali, non possiamo fermare il treno perché neanche quello c'è: concepirlo come qualcosa è un utile artificio linguistico/teorico nato con le scienze sociali, ma il nostro parlare di 'sistema', di 'società' e simili non corrisponde davvero a qualcosa di esistente.
Questi sono in realtà termini di massima per indicare la risultante di una infinità di azioni e comportamenti su tutti i piani della realtà che tutti mettiamo in essere, ma la realtà-realtà è solo il qui ed ora di ognuno di noi, per infinitesimo che possa essere.
D'altra parte, la dimensione reale qui ed ora è comune a tutti e non contiene solo gli aspetti materiali, misurabili e, forse, meglio prevedibili, ma anche tutta la sensibilità, la creatività e l'energia della nostra vita che, in modo diretto, ha una certa forza nel comunicarsi. Una forza che gli viene dal fatto di essere vissuta e reale in modo evidente, realizzato (realizzato in quanto pratica, non in quanto obiettivo o risultato raggiunto).
La pratica e la scelta ecofondamentalista, quindi, senza sentirsi incompatibile, né in contrasto ed anzi simpatizzante, solidale e, dove possibile, compartecipe con altre che vogliono andare in una analoga direzione per altre vie, è in primo luogo quella di vivere, a partire da sé stessi, dalla propria vita qui ed ora, in un modo che sia eco/socio-sostenibile e vedere le cose in un'ottica ecocentrica.

Questa strada si può ben sovrapporre e può auspicabilmente coesistere, all'interno della vita di una stessa persona o di un gruppo, con l'impegno in campagne, iniziative e movimenti ecologisti, altermondialisti e simili, ma la sua peculiarità, che chiamo ecofondamentalista, è l'aspetto di costruzione diretta, concreta e orientata sugli aspetti basilari della propria vita, dell'alternativa allo stile di vita consumistico/distruttivo, in quanto messa al primo posto tra le tante cose di cui una persona 'impegnata' si può occupare.

Naturalmente questo approccio comporta un modo di vedere le cose un po' diverso da quello che spesso appartiene agli attivisti dei vari movimenti: non incompatibile nella pratica comune dell'adoperarsi per cercar di cambiare in meglio il mondo, ma in fin dei conti diverso, che mette le cose in una prospettiva differente.
Si vive e ci si adopera anche nella società, ma non è la società il punto di fuga di questa prospettiva e non è come cittadini che si guarda a sé stessi, non è sul metro della Storia che si misura la correttezza del cammino che si segue. Non è antropocentrico il proprio mondo.
C'è una rottura netta con la modernità nei suoi presupposti prometeici - anche se non si può non esser figli degli avvenimenti trascorsi, riconoscendone il bene insieme al male.
Dunque si parte dalla concreta immediatezza della propria esperienza nel vivere, diretta, non mediata attraverso la sua interpretazione culturale, almeno si cerca di fare ciò per quanto possibile, ci si sintonizza con quello che è effettivamente il nostro sentire così com'è.
Ciò con cui ci si rapporta ed a cui ci si riferisce è il momento presente a partire dalla sua fisicità.
E' l'atteggiamento di zazen (della meditazione) esteso a tutta la vita.
Nel momento presente nella sua fisicità così com'è al di là del giudizio abbiamo a che fare con una realtà che, pur essendo umana - dato che è la nostra esperienza -, nella sua sostanza profonda è Natura, è al di là dell'umano, è ciò che ci unisce al cosmo o, meglio, è dove incontriamo il nostro essere tutt'uno con il cosmo.
Sebbene nella nostra esperienza, nel nostro rappresentarcela, interagiscono sempre necessariamente categorie e condizionamenti che ci vengono anche dalla nostra particolare formazione culturale, ciò avviene sempre su un fondo di base che è natura.
Quando ci rapportiamo con questioni di ordine politico, economico, storico ecc…, pur facendolo inevitabilmente in modo indiretto attraverso il pensiero, i suoi concetti e le sue generalizzazioni, non dovremmo mancare di restare con i piedi per terra riconoscendo il punto in cui i fenomeni su cui ragioniamo si producono e si riproducono effettivamente nella realtà.
Così come vediamo nella nostra esperienza individuale che i nostri atteggiamenti psicologici e mentali prendono forma e si riproducono costantemente nel momento presente.
Così come le situazioni concrete della nostra vita sono generate dall'avvenimento di fatti che ci coinvolgono e da azioni che noi compiamo, nello stesso modo possiamo capire che c'è un piano di realtà sul quale fatti ed atti agiti producono e riproducono nel piccolo quelle che nella loro risultante d'insieme, viste in grande scala, sono le condizioni storiche, politiche, economiche, ambientali ecc.. di più vasta portata.
Per studiarle, analizzarle, rappresentarcele sono utili modelli teorici ed alcuni concetti-cardine a cui ci serve far riferimento come 'Società', 'Storia', 'Capitalismo', 'Consumismo', 'Sviluppo' ecc… Ma quando avviene che cominciamo a considerare queste idee come 'entità' a sé stanti, come se avessero autentica esistenza propria e ne dimentichiamo il piano concreto, fattuale, in cui siamo noi a produrle, sia quanto ai fatti che quanto al pensiero, entriamo in un nuovo tipo di mitologia e di superstizione che, come altri del passato è un 'oppio dei popoli', utile a deresponsabilizzarci dalla nostra autentica condizione, che non è né quella di vivere in un mondo immaginato, né quella di rassegnarci alle circostanze che ci troviamo intorno, bensì quella terza e mediana tra queste della costruzione del Possibile - dove la misura del possibile non è data dal nostro sogno prometeico, ma dalla Natura.
L'attivismo sociale, politico ecc… è figlio, storicamente e per formazione mentale, della mitologia social-ista (fondamentalmente scientista, neo-positivista). Qualcosa il cui orizzonte progressista** comincia e finisce all'interno di uno spazio che mantiene l'Uomo al proprio centro e che perciò su questo concentra tutti i propri sforzi come se nulla potesse cambiare se l'uomo non cambia.
Questo è effettivamente corretto, dato che parliamo dei problemi della condizione umana ed originati dagli esseri umani. Ma finché non usciamo da questo orizzonte antropocentrico rischiamo di rimanere prigionieri degli strumenti che usiamo al suo interno, che sono appunto queste 'entità' teoriche a cui riconosciamo esistenza. Si tratta dell' 'oppio dei popoli' astrattista dell'egemonia culturale degli intellettuali, i nuovi sacerdoti che, dall'Illuminismo in poi, hanno preso il posto di vescovi e cardinali***.
Il problema è, a mio avviso, che, una volta percorso tutto il perimetro dell'orizzonte umano/umanistico/antropocentrico nella sua estensione esplorabile attraverso il linguaggio, il logos, ovvero nel suo aspetto esterno, all'uomo non resta che rivolgersi all'interno per cambiare ulteriormente in quel passaggio autentico che oggi è diventato una questione di sopravvivenza.
E rivolgendosi al proprio interno e al di là dei propri strumenti prefabbricati, l'uomo trova la Natura nella sua essenza viva, che è il momento presente.
Il momento presente come base per il riconoscimento della nostra esistenza in termini di esperienza e dimensione viva è la via d'uscita da questo orizzonte falsato che ci siamo creati attraverso la concretezza del punto in cui il nostro essere umani si riconosce fondamentalmente integrato, per propria natura, nella Natura.
In questo modo avviene, da un lato, che il nostro orizzonte, compresa la scala temporale e di portata su cui valutiamo la giustezza di valori e principi, si amplia immensamente e, dall'altro, che le conseguenze nel comportamento pratico, della nostra personale adesione a tali valori e principi trova una dimensione molto diretta in cui tradursi in pratica, ed un vaglio piuttosto stretto per distinguere ciò che è reale da quelle che sono solo vane parole.
In questo senso, quando ci rapportiamo con i problemi dell'economia, della politica, della cultura, con le grandi questioni del nostro paese e del mondo, allo stesso modo in cui nella pratica della meditazione (che è la pratica per eccellenza del momento presente) è centrale la postura del corpo - ovvero la base materiale, fisica - che permette l'attenzione e la presenza mentale, così è agli aspetti economici-strutturali della nostra vita che dobbiamo guardare per trovarvi il punto di nascita e rinascita continua dei meccanismi su larga scala con cui ci rapportiamo a partire dal sostegno o meno che gli diamo da parte nostra e quindi, viceversa, al contributo negativo, in termini di boicottaggio, con cui vogliamo toglierglielo.
In altre parole, se vogliamo trovare un terreno d'azione unico, integrale, sia per la nostra vita personale che per l'origine delle grandi problematiche che ci stanno intorno (o addosso), e lo troviamo a partire dalla realtà come momento presente, è in primo luogo agli aspetti strutturali, economici, lavorativi, materiali della nostra vita che dobbiamo guardare perché questi - come aveva ben compreso anche la critica marxista della società - sono quelli portanti che danno la forma a tutti gli altri, quelli sovrastrutturali.
Nello stesso modo, nella meditazione (e particolarmente nello zazen) la postura precisa e diritta del corpo dà la base per il giusto stato d'animo ed atteggiamento mentale.
Nello stesso modo, un significativo numero di persone, gruppi, famiglie, comunità, individui e piccole attività produttive che si fosse organizzate per sostenersi in modo sempre più sano e sostenibile (nei limiti del possibile e in varie forme e misure possibili, ma facendo ogni sforzo necessario) sia dal punto di vista ecologico che umano, sarebbe una base certa per una proporzionalmente estesa riconversione della società, dell'economia, della cultura ecc… in una direzione altrettanto sana e sostenibile.
E' una considerazione semplice in fondo, così come è semplice riconoscere che, anche seguendo una strada meno diretta e microdimensionata, ma più indiretta e su scala sociale, attraverso campagne per riforme, propaganda, informazione, liste elettorali ecc.. (che pure sono certamente utili e necessarie), prima o poi, comunque, al passaggio in cui bisognerà trarne le conseguenze sul proprio concreto modo anche materiale di vivere, ci si dovrà pur sempre arrivare. E, forse val la pena di aggiungere che, mentre, fatte tutte le campagne e le nuove leggi, questo passaggio rimarrà in pratica ancora tutto da fare, viceversa, una volta riconvertito nei fatti lo stile di vita da parte di molta gente, di campagne, lotte e propaganda non c'è più bisogno, almeno non per gli stessi gravi problemi.

Un'altra conseguenza, da questo punto di vista, collaterale nella peculiarità della prospettiva ecofondamentalista è che da certe tematiche e battaglie tipiche delle tradizioni della Sinistra ovvero del progressismo, si discosta sensibilmente.
Questo dipende dagli stessi punti di dissenso discussi sopra riguardo al 'prometeismo' e all'astrattismo della cultura occidentale moderna e particolarmente alla maniera radicalmente diversa di guardare alla libertà individuale da un lato e a ciò che è Natura rispetto a ciò che è Cultura dall'altro.
Per una discussione più in esteso di questi argomenti rimando ad alcuni degli altri testi come particolarmente Sul Maschile e il Femminile e Sull'omosessualità.


NOTE:
* Il punto critico, naturalmente, è “se ne fai parte” : questa condizione è normalmente data per scontata. La cultura occidentale moderna, scientista, sociologista, storicista, antropocentrica, intellettualista, una volta inventata la “Società” ha implicitamente assunto che si trattasse di una realtà, culturale, pari a quella naturale e che fosse l'unico territorio e l'unico orizzonte degli esseri umani che a loro volta sono stati cancellati in quanto tali - all'occorrenza anche fisicamente, vedi molti dei popoli una volta detti “primitivi” e oggi non più detti così, per political correctness, ma di fatto scomparsi - e trasformati in “cittadini”.
** Infatti l'attivismo sociale e politico delle forze conservatrici è sempre stato solo perché costretto dalle circostanze, di rimando, di risposta, più esattamente detto infatti 'reazionario'. E quando gli è capitato di acquisire un certo dinamismo e una certa forza, come nel fascismo, si è trasformato presto in un elemento di paralisi della società, anziché di movimento e trasformazione.
*** E non è infatti un caso se oggi che scienza, razionalismo ecc. sono un po' in crisi dati gli effetti che hanno provocato, il Papa e gli altri prelati - peraltro non senza un certo seguito - cercano di riguadagnare punti, sebbene non abbiano comunque molto di sostanzialmente nuovo da dire rispetto al tempo in cui erano egemoni - ed, anzi, a volte perfino puntando proprio su questo.


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