Ecofondamentalista. Riflessioni di un neo-contadino
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SUL BOICOTTAGGIO

In sintesi…
Oggi il potere si presenta, almeno nei paesi ricchi, in una versione il più possibile apparentemente non-autoritaria, fenomeno nel quale svolgono un ruolo importante il mondo della cultura e dell'informazione. Oggi più che mai dunque è decisiva la collaborazione che nei fatti i dominati accordano al sistema che li domina, collaborazione che oggi viene data nella condizione di consumatori.
Per questo il boicottaggio è il punto centrale nella lotta radicale all'attuale sistema dominante.
Le forme violente di lotta diventano improponibili oltre un certo grado di sviluppo economico come si è dimostrato dagli anni '70 in poi, ma una critica analoga si può estendere a tutte le lotte antagoniste ed ai presupposti stessi dell'idea di rivoluzione.
Il boicottaggio è una forma di lotta praticabile che ha un carattere diretto ed un principio individuale, pragmatica, non idealista, che, senza separarsi dalla ricerca di un personale benessere, può avere ampie ricadute sulla realtà storica per una strada efficace che si rende autonoma dalla politica. Si tratta in primo luogo di prendersi le proprie responsabilità nella propria interrelazione con il mondo e di trovare criteri per orientarvisi.
Il boicottaggio ha diversi livelli: dal comprare selettivamente, al comprare meno, al mettersi in una condizione che ha strutturalmente poco bisogno di comprare, al non sostenere attività distruttive con il proprio lavoro, ad una più ampia non-collaborazione che può investire anche i rapporti personali.

(versione PDF)

La forma di lotta in cui mi riconosco di più è quella del boicottaggio:

a) E' assolutamente radicale
b) E' al tempo stesso non-violenta
c) Si pratica in prima persona, non sono solo parole
d) Corrisponde ad una scelta di vita e ne può migliorare la qualità

Il boicottaggio è quell'arma che toglie da sotto i piedi al Sistema il terreno su cui si basa, lo mina alle fondamenta ed un sistema minato alle fondamenta non può risorgere solo cambiando nome o aspetto e continuando però a funzionare nello stesso modo.
Il principio da cui parte la strategia del boicottaggio è quello della non-collaborazione: è il riconoscimento del fatto che perché ci sia un'oppressione ci devono essere un oppressore ed un oppresso ed il secondo in qualche modo 'collabora' col primo in vari modi secondo le forme di potere, nel caso limite preferendo questa collaborazione alla morte. In questi casi, come quelli delle dittature fasciste o delle occupazioni militari straniere, spesso a molti la risposta armata attiva appare essere l'unica valida per difendere la propria libertà e dignità, e questo è perlomeno molto comprensibile.
Nell'epoca attuale il potere difficilmente si presenta in forme esplicitamente fasciste, specie all'interno del cuore stesso del sistema che domina il mondo cioè nei paesi occidentali e ricchi, ma anche altrove, dove può farlo più facilmente, cerca comunque di avere delle giustificazioni date dall'azione violenta - reale o presunta - di un qualche “nemico”. L'importanza della nozione di diritti umani, dell'identificarsi con una idea di democrazia e di libertà, l'esperienza passata di dittature e genocidi, fanno sì che oggi il potere del sistema si regga sulla collaborazione di chi non ha il potere con chi ce l'ha, sul consenso, sull'adesione ad un cosiddetto 'modello di sviluppo' che, in un modo o in un altro, conviene a tutti seguire.
Oggi, prima di arrivare alla repressione violenta, molti sono i modi ed i passaggi con cui si contiene il dissenso all'interno di limiti compatibili. Attraverso l'educazione, l' 'informazione', quell'apparenza di pluralismo politico e culturale che fa sì che possano esprimersi tante voci, ma mai troppo eterodosse - almeno non attraverso i canali che contano.
Il contenimento all'interno di limiti 'accettabili' avviene, oltre che con le censure politiche belle e buone, con l'impossibilità di accesso ai mezzi di comunicazione per motivi economici (si può dire quel che si vuole basta che sia qualcosa che dia garanzie di ascolto, quindi di guadagno per l'editore, magari attraverso la pubblicità), come pure attraverso 'esigenze imprescindibili' proprie del mezzo o del palinsesto che fanno sì che brevità, leggerezza e velocità non permettano mai di entrare nel merito più di tanto nelle argomentazioni e di poter esporre compiutamente visioni non consuete delle cose. Si fa in modo che le posizioni non compatibili appaiano irrealistiche, nella migliore delle ipotesi utopistiche o, peggio, vagamente pericolose perché potenzialmente da fanatici ideologici. In breve, cose con le quali non c'è tempo da perdere per noi uomini moderni realisti e veloci, impegnati a far quadrare i bilanci della nostra vita.
Così sempre più nelle società occidentali le varie posizioni politiche e culturali girano a vuoto confrontandosi da tutti i punti di vista diversi sulla infinita varietà di aspetti del problema costituito dal sistema in cui viviamo e guardandosi bene dall'affrontare i problemi alla radice, il che, del resto, non è affatto ciò che i rappresentanti di turno di queste varie posizioni intendono fare dato che ciò per cui stanno dove stanno è continuare a far girare lo spettacolo della democrazia - e di sé stessi - spettacolo che davanti alla radice dei problemi rischierebbe di interrompersi.
Chi non si riconosce in questo spettacolo è, in un modo o nell'altro, condannato a subirlo: nel campo politico non votando si subisce la scelta di chi vota e votando senza riconoscersi lo si fa soprattutto per evitare un male peggiore.
Innegabilmente il campo culturale dà qualche possibilità in più (e infatti molti di quelli che “non si riconoscono” cercano realizzazione sul piano culturale): anche se per l'accesso ad una comunicazione ampia è indispensabile apparire 'vendibile' ai detentori della distribuzione, ci si può sempre rivolgere ad ambiti cosiddetti 'di nicchia'. Ma è altrettanto innegabile che, quanto alla possibilità di incidere realmente in termini di cambiamento in una società, il piano culturale è di per sé più aleatorio, forte sì a volte, ma di incerta efficacia, sia quanto ai tempi che alla reale direzione dell'effetto degli input dati.
Questo perché il piano culturale è, in fin dei conti, sovrastrutturale, mentre una società si fonda su meccanismi economici, interazioni ambientali, oltre che sulla 'condizione mentale' o livello di coscienza delle persone che la compongono che è altro dalle rappresentazioni culturali (e specialmente artistiche) che ne derivano. Questo 'livello di coscienza' sta su un piano più profondo e più vissuto rispetto alle opinioni e le sensibilità estetiche o ideali superficiali: è la disposizione di fondo che ci rende accettabile o inaccettabile una determinata situazione o condizione di vita e che nel secondo caso ci spinge all'azione.
La creazione artistica può stimolarci emozioni e riflessioni sulla realtà, ma è in sé ben lungi dalla realtà, anzi, a ben vedere, può essere ciò che è (in ultima analisi spettacolo) proprio in virtù del fatto di non essere realtà, e, trattandosi di qualcosa di affascinante e dalle infinite possibili variazioni (essendo frutto della mente umana), non è mai a corto di nuove forme (e ciò ancor di più con le tecnologie attuali) per cui, anche con le migliori intenzioni “the show will go on”.
Il risultato, oggi che l'espressione artistica non è più il lavoro artigianale di un elemento radicato nella comunità e che ne condivide la condizione di base, ma è invece spesso l'occupazione unica di professionisti della cultura che costituiscono di fatto un'elìte sotto vari punti di vista, è che arte e cultura sono in primo luogo dei settori di mercato. E la libertà di cui superficialmente godono le diverse forme di espressione a vario livello artistica è data dal fatto che si può dire ciò che si vuole perché tanto questo non cambierà nulla: possiamo anche tutti pensare che il sistema di cui siamo tutti partecipi è ingiusto e distruttivo e possiamo dirlo in mille modi possibili, ma da qui a cambiare realmente il nostro modo di vivere che ce ne rende partecipi c'è un abisso. Un abisso che tante parole, immagini ed anche informazioni, per quanto significative, critiche e sottili, col momentaneo effetto di farci sentire (superficialmente) avvertiti e consapevoli, nei fatti non fanno che allargare. Se non ne derivano su ciò che è strutturale comportamenti pratici conseguenti possiamo già dire che tutto il consumo di produzione culturale 'critica', 'consapevole', 'alternativa', 'antagonista', 'trasgressiva' o quant'altro, non è oggi altro che una particolare nicchia del business che non cambia la sostanza delle cose.
A ciò va aggiunto che in questo mondo ipermediatico siamo talmente bombardati da un eccesso di informazioni e comunicazioni di ogni genere che ho forti dubbi che questi 'input di nicchia' riescano sempre ad esprimere, anche per quanto superficialmente, la propria peculiarità, dato che mi sembra si vada verso una situazione così inflazionata che troppa comunicazione/informazione = nessuna comunicazione/informazione al punto che tanto di ciò che ci giunge non riusciamo veramente più a registrarlo.
Quanto poi ai creatori delle offerte di tale nicchia, trattandosi appunto di una elìte, per quanto essi possano avere buone intenzioni quanto al proprio ruolo nel miglioramento della società, non ci si può aspettare da loro (tranne rare e coraggiose eccezioni duramente pagate) un discorso che porti una critica strutturale a questo sistema, forse unico nella Storia, che ha posto la gente dello spettacolo, le occupazioni dell'effimero, ai vertici delle retribuzioni, delle possibilità di arricchimento e di successo in tutti i campi (compreso quello politico) laddove in ogni società tradizionale - e certamente in un eventuale sistema ecocompatibile - difficilmente qualcuno potrebbe vivere di sola arte o 'cultura' e di certo non se ne potrebbe arricchire.
Credo sia importante aprire gli occhi su questa realtà proprio perché la 'via culturale' è oggi quella intrapresa da molti fra coloro che sentono di voler cambiare in qualche modo il mondo ed è anche l'esito che hanno avuto le vite di parecchi fra quelli che, durante lo spartiacque storico dei conflitti degli anni '60 e '70, tentarono questo cambiamento sul piano politico e inevitabilmente fallirono.

Quanto a chi non sopportò e non sopporta il senso di impotenza derivato da questo fallimento ed ha optato per l'antagonismo violento o per la lotta armata voglio distinguere le due posizioni limitandomi ora alla questione specifica della lotta violenta.
L'antagonismo, che negli anni '70 era proprio dell'Autonomia Operaia e più di recente dei Centri Sociali e di gruppi quali i Disobbedienti e simili, punta alla ribellione diffusa, alla moltiplicazione orizzontale dei comportamenti di autonomia politica, economica e sociale che culminano, sul piano del conflitto, nello scontro di piazza e nella difesa fisica degli spazi di autogestione conquistati.
Sempre per rimanere solo, con la critica, su questo piano, direi che il loro errore sta nel non rendersi conto che, in una società opulenta come la nostra, anche se l'area sociale che fa riferimento realmente alla loro parte fosse quella degli economicamente più disagiati (il che neanche è sempre vero), ciò che c'è da perdere nel mettersi nel campo dell'illegalità è sempre troppo per la generalità delle persone: le rivoluzioni popolari avvengono in condizioni di estrema oppressione dei propri bisogni materiali e del senso della propria identità personale quanto ai propri diritti, o presunti tali; e queste condizioni non sono presenti in modo sufficientemente diffuso nelle società sviluppate di oggi.
Per quanto possiamo non esserne soddisfatti e non riconoscerci in esso, il sistema in cui viviamo non ci fa stare in una condizione in cui sentiamo (al di là di ciò che si può anche dire a parole) di non aver niente da perdere, anzi, forse ci sembra di avere anche più di ciò che realmente abbiamo. E gli spazi autogestiti “liberati” vivono troppo prevalentemente sul piano, in senso ampio, culturale mentre ciò che è strutturale nella vita di chi li frequenta è ancora quasi sempre interno al sistema rispetto al quale ci si sente antagonisti per cui questo antagonismo rimane piuttosto velleitario perché sta essenzialmente sul piano ideale e per le idee non si rischia di morire, non di rovinarsi la vita, almeno non più, non qui, non noi, non solo per le idee.
La strategia dei gruppi armati è invece quella dell'avanguardia, di coloro che si incaricano di aprire la strada (e con ciò anche si preparano a gestire ciò che verrà dopo). Hanno meno fiducia degli antagonisti nella generalità del genere umano, sono più politici e certo più militari, ma ancor meno realistici nel contesto delle società cosiddette del 'capitalismo maturo'. Vorrebbero mostrare la vulnerabilità del potere colpendolo nei suoi centri nevralgici (questo nella migliore delle ipotesi perché poi più spesso se la sono presa con chi era più facilmente a portata) sperando che così la gente li segua, almeno chi è interessato ad un ribaltamento delle gerarchie sociali.
Ora, probabilmente, ad un vero ribaltamento delle gerarchie sociali non in così molti sono interessati, e questo dovrebbe farglielo capire il fatto stesso che gli pare necessario che qualcuno si assuma un così drastico ruolo di avanguardia. Ma, al di là di tutto, c'è una considerazione che vale sopra tutte le altre per qualsiasi ipotesi di lotta armata o violenta nei paesi sviluppati: i rapporti di forza su un piano prettamente militare rendono la cosa evidentemente a dir poco improbabile. Non c'è modo di vincere uno scontro contro lo Stato o il Sistema o il Potere o come lo si voglia chiamare, sul piano militare.
Alla fine degli anni '70 dopo il sequestro Moro, il 7 Aprile, l'ondata di repressione che ne seguì, questo è apparso in modo evidente, inequivocabile. E questo ha reso chiaro, sia per chi credeva in un percorso di avanguardie armate, sia chi in uno di insurrezione diffusa e progressiva riappropriazione e difesa di spazi, che, giunti al momento decisivo dello scontro, semplicemente, si perdeva. E, dato che le istanze del movimento degli anni '70 erano incompatibili col percorso che il sistema capitalistico occidentale stava facendo e che ci ha portati fino al punto in cui siamo ora, era altrettanto chiaro, volendolo vedere, che questo scontro in cui si perdeva sarebbe stato presto o tardi all'orizzonte su ognuna delle strade che questo movimento avrebbe voluto coerentemente percorrere.
Le alternative dunque erano, e sono state, due: chi ha percorso strade non coerenti ovvero si è riciclato politicamente in altre formazioni e posizioni politiche a volte persino opposte, come è il caso inglorioso, e spesso pietoso, quanto arrogante, di alcuni noti personaggi dell'odierno varietà giornalistico/massmediatico; e chi ha abbandonato del tutto la ricerca di una soluzione sul piano politico.
Non più sostenuto dalla possibilità di un'idea di cambiamento strutturale del sistema, il grande sogno collettivo degli ani '60 e '70 è rapidamente svanito in tutti i suoi aspetti, così chi ha cercato una soluzione in progetti personali, viaggi, stili di vita, spiritualità, arte, famiglia, chi ha cercato altrove in paesi non occidentali, chi è andato in campagna, chi non ha immaginato più alcuna soluzione e si è autodistrutto con l'eroina - che ha infatti conosciuto il suo primo grande boom in Italia nel 1980 in concomitanza con la soppressione del movimento da parte dell'ondata di repressione seguita al sequestro e omicidio di Aldo Moro (chi ha vissuto quegli anni se lo ricorda bene).
Per la verità la maggior parte delle persone ha fatto entrambe le cose: ha abbandonato il sogno di una soluzione sul piano politico ed ha cercato una propria soluzione individuale su una strada non coerente che l'ha portato a reinserirsi in quella società e in quei ruoli che avrebbe voluto distruggere.
Molto del fondamento dell'enfasi attuale sulle posizioni politiche ed esistenziali “realistiche” e “non-ideologiche” si basa su questo tipo di reazione, nei fatti, all'esito finale degli anni '70.
Di coloro che, appunto irrealisticamente, hanno voluto continuare sulla strada dello scontro violento ho già detto ed oggi la loro funzione di fatto (mi riferisco qui solo alla pratica antagonista dello scontro, non a quella dell'autoproduzione e dell'autogestione anch'esse presenti nel mondo dei Centri Sociali) è quella di contribuire a giustificare l'atteggiamento da 'emergenza' per l'ordine pubblico che non guasta mai all'occorrenza per ogni prudente (anche nel senso che qualcosa gli prude) ministro dell'Interno.

Ma al di là di ogni considerazione di praticabilità dello scontro violento sul piano militare, per essere pragmatici, e sul piano morale, per essere umani, c'è un ragionamento da fare più generale sull'idea stessa di rivoluzione.
Se usciamo dalla visione un po' unilaterale della dicotomia oppressori-oppressi e vediamo le cose nell'ottica di un sistema sociale che applica un atteggiamento mentale, interagisce in un determinato modo con l'ambiente in cui vive e realizza un modello economico da cui deriva un assetto sociale, una organizzazione politica, un orizzonte culturale ecc… possiamo vedere che tutti i componenti di una società aderiscono ad essa nel proprio ruolo in quanto e finché traggono da essa soddisfazione materiale e psicologica. Se un sistema sociale non funziona crolla, ma se funziona per molto tempo ed incarna la struttura di una società nei suoi vari aspetti, per quanto possa essere iniquo, sbilanciato, insoddisfacente sotto ogni punto di vista, bisogna considerare attentamente perché tuttavia si regge. Perché se si regge vuol dire che corrisponde alle aspettative ed alle capacità delle persone che ci vivono dentro sia ai livelli alti che a quelli bassi della scala sociale.
Voglio dire che una volta fatta una rivoluzione se si pensa di costruire una società radicalmente nuova bisogna che le persone (non solo le cosiddette 'avanguardie' ma la generalità) siano nuove, ma se realmente lo fossero state il sistema precedente sarebbe di fatto crollato da sé. La gente avrebbe cominciato a praticare forme diverse di interazione sui vari piani della vita economica, lavorativa, dei costumi ecc… , le vecchie regole non sarebbero state più seguite e se ne sarebbero trovate delle altre. E se chi doveva stabilirle non era capace di interagire con la nuova realtà, avrebbe, in un modo o nell'altro, perso la propria posizione dominante.
Mi rendo conto che questo “in un modo o nell'altro” è un punto centrale e non escludo che ad un certo punto possa rendersi necessario un passaggio in cui il cambiamento viene imposto ricorrendo alla forza da parte della maggioranza della gente - per la quale le cose sono nei fatti già cambiate - a qualche centro di potere di chi vuol tenersi ciò che ha, ma questo è ben altro rispetto ad una rivoluzione - si tratta semmai solo di una 'spallata finale'. E non mi riferisco solo alla portata dello scontro che si verifica in una rivoluzione, ma soprattutto all'aspettativa quasi millenaristica che essa contiene. Ciò che voglio dire chiaramente è che se un cambiamento radicale non si è già verificato naturalmente non sarà una rivoluzione a farlo avvenire e questo perché le persone che erano prima sono anche dopo (oltre alle circostanze materiali oggettive). E nel voler fare per forza la situazione del domani con le persone di ieri si finisce regolarmente per fare della liberazione una dittatura e del rivoluzionario un oppressore.
Da questo si capisce anche un'altra cosa. Che a fare la situazione precedente contribuivano anche coloro che non erano nella posizione dominante nel precedente sistema.
Il sistema precedente era in realtà alimentato anche dal contributo, che fosse o meno consapevole o volontario, che gli davano i non-dominanti o subordinati.
Questo è specialmente valido nella società attuale (che è poi ciò che ci interessa) dove una dittatura esplicitamente fascista è - a tutt'oggi almeno - storicamente improponibile e dove la dicotomia dominanti - subordinati corrisponde a proprietari dei mezzi di produzione - consumatori ( non proprietari dei mezzi di produzione - operai, non più o almeno non altrettanto, sia perché molto della produzione è fatto dalle macchine, sia perché una gran parte di essa è stata spostata nel Terzo Mondo) .
Ed il consumatore dev'essere volontario. Ed anzi è forse questa la ragione pura e semplice per cui nell'epoca del consumismo è improponibile una dittatura esplicitamente fascista. Forse il fortissimo condizionamento a cui le persone sono soggette ad opera di tv ed altri media può favorire l'instaurarsi di una dittatura non esplicita ma altrettanto efficace, occultata quel tanto che basta ad evitare l'atmosfera socio-culturale e psicologica depressiva che una dittatura schietta comporterebbe con l'effetto di rallentare i consumi.

E' così, considerando l'aspetto della necessaria volontarietà del consumatore e quello dell'impossibilità di una dura repressione, che risulterebbe un atto esplicitamente fascista contro un comportamento non-violento, ecco che il boicottaggio si pone come un'arma potente e difficilmente contrastabile, che non fa violenza a nessuno, quindi non teme confronti militari, ed è moralmente ineccepibile, ma che neanche è autolesionista per chi la pratica, anzi, a ben vedere, gli migliora la vita.

Quanto detto finora vuol esprimere il valore del boicottaggio come forma di lotta e in quanto tale confrontarlo con altre forme su questioni cruciali in ogni situazione di lotta che sono la violenza o la non-violenza, la loro efficacia o meno e le alternative possibili, i rapporti di forza, la praticabilità della forma di lotta e quindi la sua diffusione a livello di massa.

Essendo oggi il ruolo delle persone, quanto a sostenere il sistema in cui vivono, in primo luogo quello di consumatori, il significato basilare di 'boicottaggio' è quello di non comprare. Ma ci sono vari livelli a cui possiamo intendere questa parola e questa pratica, sia limitatamente agli acquisti sia andando al di là e coinvolgendo un po' tutti gli aspetti della nostra vita.
Al livello minimo si può non comprare i prodotti di una determinata ditta o quelli provenienti da un certo paese che sappiamo responsabili di fatti particolarmente negativi - come nel caso delle campagne contro i prodotti del Sudafrica dell'apartheid, o di Israele e quelli della Nestlé ecc…
Ed in senso più ampio si può cercare di ridurre in generale i propri consumi un po' in tutti i campi allo scopo di avere un minore coinvolgimento nel sistema consumistico e così diminuire il proprio impatto ambientale.
Ma, certo, se si vuole praticare realmente questa scelta più ampia, si trova che è molto difficile conciliarla con un sostanziale inserimento nel sistema socio-economico-culturale attuale e si rischia di trovarsi davanti all'alternativa tra lavorare per poi non poter godere della propria disponibilità di denaro (in quanto la gran parte dei modi in cui spenderlo sono antitetici a questa scelta) o ripiegare in forme dissimulate in fin dei conti dello stesso consumismo spostandolo eventualmente su prodotti che si sono guadagnati in qualche modo un'immagine di 'alternativi'.
E non basta: in quest'ottica più ampia di completezza e di coerenza non si può non mettere in questione da dove vengano i soldi per i propri acquisti ovvero che lavoro si fa, ed è facile vedere, se si è onesti, quanto moltissime occupazioni siano legate (spesso molto strettamente, in modo inevitabile, sebbene a volte in via non evidente o indiretta) al sistema che sfrutta i popoli e distrugge il pianeta (e attenzione che lo fa davvero, e in modo sempre più pesante anche per noi: non si tratta di luoghi comuni ideologici).
Se stiamo attenti a ciò e a quanto compriamo perché vogliamo incidere, nel nostro piccolo, sull'impatto del sistema consumistico, perché non vogliamo sostenerlo, avrebbe certo poco senso limitarci su una parte dei nostri acquisti mentre la totalità dei soldi di cui disponiamo per farli proviene dalla nostra attiva partecipazione alla produzione di un tale sistema.
Dunque un reale boicottaggio non può che investire tutta l'impostazione che diamo alla nostra vita: si allarga ad una integrale prospettiva di comportamento che è quella della non-collaborazione ovvero il non farsi parte attiva, diretta o indiretta, dei meccanismi distruttivi e contro-natura. Questa non-collaborazione è un punto centrale nell'ecofondamentalismo e non si limita ad essere un atteggiamento/comportamento tra me e qualcosa (chiamiamolo 'il Sistema') che sta fuori o intorno a me, ma riguarda proprio chi sono io, che attiene proprio all'individuo e che lo definisce in quanto integro, pulito da ciò che è considerato come negativo. E' una scelta di vita e di identità, un modo di essere ancor prima che un modo di rapportarsi con una serie di strutture economiche e quant'altro. Il modo in cui spenderò i miei soldi non è che una conseguenza: il punto è che forma dò alla mia vita, e cosa faccio per vivere, cioè come li guadagno, è un fattore decisivo che determina questa forma.

Dunque, in un'ottica ecofondamentalista, il modo corretto di vivere, quello da praticare, da realizzare o al quale autenticamente cercare di avvicinarsi il più possibile è tale che non ci sia collaborazione a partire dal lavoro del quale si vive con qualsiasi entità o persona privata, pubblica o giuridica, aziende, istituzioni, attività autonome ecc… che direttamente o indirettamente alimentino i processi per i quali la distruzione ecologica del pianeta, lo sfruttamento dei popoli nei paesi poveri, il disagio e la superficialità esistenziali nel mondo stanno avendo luogo.
Si tratta di una non-collaborazione radicale con il Sistema come principio di fondo.
Si tratta veramente di una scelta di vita ed è importante farla presto, da giovani, se la si vuole portare avanti con una certa coerenza perché necessita di impostare le cose a monte: non è facile distaccarsi da un lavoro, competenze professionali, la necessità di abitare in una determinata zona con determinati servizi, le aspettative dei propri familiari, il bisogno di un certo livello di reddito magari per pagare mutui ecc… una volta che la vita è stata impostata così - sebbene sia anche vero che, giunti ad una 'certa età' può darsi che si abbia qualche mezzo finanziario in più per permettersi una 'riconversione' della propria situazione, se davvero lo si vuole. Ed inoltre una scelta di questo tipo è veramente molto difficile perché tutto rema contro e quindi ci vuole l'energia e la convinzione - e forse un po' la pazzia - della giovinezza per affrontare tutto ciò che è necessario all'inizio.
Sì, perché le possibilità sono piuttosto ristrette: se escludiamo tutti i lavori che in qualche modo sono connessi con multinazionali, speculazioni finanziarie, inquinamento, consumismo, propaganda o giustificazione di queste cose ecc…. ecco che gran parte delle occupazioni lavorative sono da rifiutare - e ciò, per di più, in un contesto in cui già sarebbe difficile trovarlo un lavoro anche senza badare a principi di sorta.
Ma qui stiamo parlando di chi veramente non voglia collaborare con gli agenti scatenanti della rovina del mondo, della Natura e delle persone al loro interno e nelle loro relazioni pubbliche e private. Stiamo parlando di chi davvero non voglia essere parte di ciò, sostenitore di ciò; di chi si rende conto che questi “agenti scatenanti” non sono solo qualche 'moloch' istituzionale o megaaziendale o qualche superpotente di turno, ma sono più realisticamente meccanismi impersonali fuori controllo costituiti da tutti coloro che a vario titolo e misura, che ne siano consapevoli e che lo vogliano o meno, nei fatti li alimentano. In altre parole da tutti noi, finché non ce ne tiriamo fuori, ma nei fatti, in primo luogo economici e lavorativi ovvero strutturali e non solo a parole, né solo o soprattutto nei consumi culturali.
Bisogna rendersi conto che questo costituisce una autentica e completa scelta di vita e che ha il prezzo proporzionato ad una tale cosa. D'altra parte, se crediamo che questa è la battaglia centrale da combattere oggi, che ne vada del destino del pianeta o almeno della possibilità di una vita decente, armonica, dignitosa e secondo natura, in una parola accettabilmente naturale, sana, dell'umanità sulla Terra, probabilmente della sua stessa sopravvivenza e con lei del mondo della Natura così come lo conosciamo, dobbiamo renderci conto che è un prezzo adeguato, anche per un mondo senza più eroi.
In precedenti passaggi storici le persone che hanno realmente voluto fare qualcosa per combattere la battaglia che percepivano come quella che andava combattuta hanno pagato il prezzo che questo implicava, siano state fatiche, privazioni, pericoli, rinunce, persecuzione, esilio, prigione, tortura, morte. E la posta in gioco non era neanche il futuro della vita sulla Terra forse anche per tutti i viventi, ma molto molto meno. Perché noi che viviamo oggi e siamo - magari involontariamente - responsabili di un gravissimo danno planetario dovremmo sottrarci alle conseguenze di gran lunga più leggere della scelta che sappiamo necessaria? E' forse più comprensibile la disponibilità a morire o finire i suoi giorni in carcere di un terrorista o un guerrigliero che combatte per una causa forse anche giusta, ma certo più limitata? E perché? E' forse che quando si tratta di un combattimento in cui c'è anche da uccidere, da sconfiggere un nemico chiaro, personale ed etichettabile come tutt'altro da noi, in cui c'è una vittoria da ottenere, un potere da conquistare, un successo eclatante all'orizzonte, che il prezzo di una piega irreversibile da dare alla propria vita, della sofferenza e finanche della morte ci appare, forse non condivisibile, ma comunque più comprensibile?

Si dirà che oggi non è più tempo di eroi e che questo è una fortuna appunto perché tanti 'eroi' nel passato sono morti ed hanno ucciso in nome di cose così limitate e passeggere che avevano valore solo nel loro particolare punto di vista in quello specifico momento storico e di lì a pochi decenni diventavano del tutto prive di significato. Giusto! Verissimo! (naturalmente si potrebbe obiettare che quelle questioni son potute diventare prive di significato proprio grazie al passaggio storico in cui queste persone hanno dato la vita….. ma non lo farò perché ora non è questo il punto).
Il punto però è che nel passaggio che stiamo vivendo siamo talmente davanti a problemi basilari per la vita sulla Terra, e la nostra come umani per prima, che stavolta la soluzione non può essere quella del sacrificio per qualcosa che va al di là. La soluzione del problema generale deve invece essere trovata - e praticata - sullo stesso piano di quella del problema personale nostro della nostra vita, qui ed ora. E' proprio attraverso la realizzazione di un modo sostenibile a tutto tondo (e quindi a partire da noi stessi, ma non solo) di vivere la nostra vita che possiamo indicare una soluzione proponibile e sostenibile in generale.
Il discorso fatto appena sopra sul prezzo da pagare non riguarda un sacrificio di sé per qualcos'altro, bensì la realtà di fatto che se si vuole realizzare qualcosa in cui si crede spesso non è per niente facile, e se si tratta di qualcosa decisamente controcorrente, ancora di meno.
Questa digressione sul sacrificio e l'eroismo non è accessoria: sta invece come completamento speculare del discorso precedente sulla violenza o meno in quanto si tratta in sostanza della violenza contro sé stessi per qualcosa di ritenuto superiore - o il corrispettivo che si trova accettabile nel momento che si fa violenza ad altri.
Così come il progetto rivoluzionario di una nuova società da realizzarsi con la violenza cade nel vuoto perché dove serve la violenza è segno che la generalità delle persone non sono pronte per tale disegno (peraltro forse perché è sbagliato, non tenendo conto della complessità dei tanti aspetti della realtà), allo stesso modo il sacrificio che l'eroe fa di sé stesso indica forse il modo in cui morire, ma lascia vuota la questione sempre di fronte agli esseri umani, che è quella di come vivere.
Così come i problemi della società affrontati con la violenza lasceranno intatte le condizioni per cui servirà poi altra violenza, allo stesso modo affrontando la propria vita sul metro di grandi ideali 'superiori' (esterni) la si sacrifica per i propri simili - meno idealisti - ai quali rimarrà ancora il bisogno di nuovi eroi ad indicare di nuovo vie impraticabili.

Dunque va bene inteso che la non-collaborazione è qualcosa di molto più ampio di una tattica o strategia politica: è proprio qualcosa che va molto al di là della politica, ma è proprio una scelta esistenziale che vede la propria vita, nella sua accezione concreta in quanto vissuta e non solo in quanto materiale/economica, come il punto di sintesi e di partenza sia per un cambiamento 'spirituale'/individuale che per quello del Sistema/società.
Ciò che sottraiamo al Sistema è la nostra collaborazione a tutti i livelli, è la nostra vita, siamo noi stessi. Questo significa che scegliere tipi diversi di oggetti di consumo (sia materiale che culturale) è solo un tiepido inizio, facilmente recuperabile dal Sistema se non si sviluppa oltre questo stadio.
Non è solo spendendo altrimenti i soldi, che continuiamo a guadagnare sostenendo in un modo o nell'altro ciò che vorremmo boicottare, che potremo mai cambiare davvero qualcosa.
Per cui è centrale la questione di che lavoro facciamo, di come ci guadagniamo da vivere ed il fatto che ciò porti automaticamente alla questione di una scelta di vita è proprio il punto che mostra come l'era della politica e della pianificazione teorica di qualsiasi modello di società futura oggi trova il suo capolinea.
Il viaggio che ci attende a partire da questa stazione al tempo stesso allarga di molto l'orizzonte del percorso ma anche lo rende di gran lunga più personale.
Se davvero non vogliamo collaborare a sostenere il Sistema col nostro lavoro per prima cosa abbiamo l'occasione, chiedendoci fin dove arriva l'ambito di questa collaborazione, di vedere quanto esteso esso sia coinvolgendo una grandissima parte delle attuali occupazioni lavorative. Con ciò ci rendiamo pure conto di quanto radicale debba essere questa scelta e che non può trattarsi che una (de)costruzione progressiva, una direzione in cui muoversi, che va intesa come una pratica e non come una ideologia unilateralmente idealistica che non vede la realtà e che perciò finirà presto o tardi per essere abbandonata.
Peraltro una visione realistica (ma non meno coerente) di questa scelta di vita/lavoro ha due importanti conseguenze.

La prima è che, seppure nel lungo periodo (ma davanti ai problemi di cui stiamo parlando chi ha soluzioni a breve termine?), apre la strada ad un percorso praticabile. Infatti, vista l'ampiezza dell'ambito della collaborazione di fatto al Sistema, ci appare drammaticamente chiaro che una rapida riconversione eco-sostenibile non sarebbe però sostenibile socialmente data la 'pandemia' di disoccupazione ed il crollo dell'economia che produrrebbe. Non potrà trattarsi che di una disintossicazione graduale, e come il tossicodipendente non può fare a meno dell'eroina dall'oggi al domani, così forme diverse di economia e di lavoro dovranno crescere lentamente all'interno di un mondo ancora dominato da un sistema al quale sono/tendono ad essere estranee. Dovranno coesistere in un certo senso clandestinamente perché le norme sulla produzione, le modalità di lavoro ecc… ecc…. sono fatte per l'economia mainstream che è, ed è sempre di più, quella pensata e gestita per una scala di massa, che è ecologicamente insostenibile. Per cui dovranno trovare il modo di passare, per molti versi, 'tra le maglie della rete' e questo presuppone che debbano essere attività economiche su piccola scala. Presuppone cioè che questa 'economia-ombra' crescente si strutturi fin dall'inizio su dimensioni piccole e con ciò legate al territorio, composte ognuna da un numero limitatissimo di lavoratori fra i quali quindi anche le relazioni umane diventano un aspetto non trascurabile, non dotate di grandi risorse finanziarie e quindi tendenti nell'insieme a produrre un'economia di decrescita. Oltre a ciò, componendosi di realtà strettamente legate alle storie individuali a tutto tondo di chi le costruisce e che devono necessariamente confrontarsi anche su una base di compromesso con l'ambiente del sistema che le circonda, questo 'altro mondo - ombra' che lentamente si radica e cresce, lo farà naturalmente con una grande 'biodiversità ' di forme, culture ed esperienze e quindi con la capacità di adattarsi alle situazioni, alle necessità ed alle opportunità di nicchia. A garantire la direzione di tutto ciò deve essere l'autentica buona volontà (nel senso evangelico) di ognuno, la consapevolezza e la convinzione rispetto alla portata della questione - e questo è possibile se si sa vedere ciò che si fa in un'ottica ecocentrica, che include la qualità della propria vita ma che a questa non si limita e neppure ai tempi della società. Proprio il fatto che si tratta di una scelta di vita personale, proprio il fatto che si tratta di qualcosa di duro da realizzare, di sofferto, dovrà garantire la linea retta interna comune ai mille diversi e tortuosi percorsi particolari.
Oggi siamo nell'era della libertà individuale e la Storia ci ha dimostrato che non possiamo fidarci di modelli di società da disegnare a tavolino: i cambiamenti sociali non si possono né pianificare né imporre, non più quantomeno. Cosa, se non la responsabilità di ognuno, sarà la leva per dare un qualche indirizzo alle nostre vite e al nostro mondo?
Non è più il tempo di prefigurare precisamente come le cose dovranno essere, di cercar di sapere prima se e come certi mutamenti potranno essere: sappiamo per certo che le cose non saranno poi nella forma che potremmo immaginare prima. Un modello di società oggi non può essere che un esercizio teorico, forse anche di una qualche utilità, ma non quella del progetto dell'architetto, quella semmai dello schizzo che vuol dar l'idea di un luogo o di un percorso che si sa bene quanto rimanga poi ancora tutto da fare e in modi diversi da parte delle diverse persone.
Per questo non saranno i politici a indicare le soluzioni: essi potranno registrarle - speriamo tempestivamente - una volta che queste avranno preso forma e, attraverso errori, fallimenti e compromessi, saranno state sperimentate nella vita reale di cui tanta gente avrà voluto riappropriarsi.
Se non saranno i politici non è perché ciò non gli spetti, certamente spetta (almeno anche) a loro, ma non ho fiducia che lo faranno in quanto, se queste vie di soluzione dovranno avere a che fare col trovare un modo di come vivere e come e su cosa lavorare a partire da sé stessi, non saranno i politici a cercarle dato che un mestiere già ce l'hanno e se lo tengono ben stretto: appunto quello della politica che in una società così complessa è ormai diventata una specializzazione per tecnici appositi. Una professione che ha periodicamente bisogno di una sorta di 'tagliando' costituito dal voto per continuare ad esercitarla; 'tagliando' che, come i politici sanno bene, sarebbe tutt'altro che garantito a chi volesse proporre misure realmente efficaci per affrontare i veri problemi di fondo che oggi abbiamo di fronte. Ciò che si può sperare è dunque solo che costoro sappiano per tempo trovare la forma normativa che dia spazio agli stili di vita e le attività economiche nuove (e magari antiche recuperate) sostenibili quando queste si presentano sulla scena sociale riconoscendone il valore non sulla solita scala dello sviluppo.
Il che sarebbe già un importante passo avanti da parte loro dato che finora ciò che viene da queste persone sono soprattutto le varie e fantasiose etichette (da 'sviluppo sostenibile' in poi in tutte successive varianti) con le quali si cerca di riciclare sotto mentite spoglie lo stesso solito processo che, dal colonialismo alla globalizzazione, continua ad affamare i popoli e distruggere la Natura spacciandosi per il progresso tout court dell'umanità. Si tratta, nella più generosa e ottimista delle ipotesi, di palliativi che non cambieranno la sostanza della questione: ma dai politici è il massimo che ci si possa aspettare. Almeno finché non ci sarà una pressione inequivocabilmente di massa a favore di quelle misure radicali per una autentica decrescita che oggi nessun politico si arrischierebbe anche solo a ipotizzare in quanto avrebbe la certezza, in questo caso, di perdere gran parte del suo seguito elettorale - e con ciò il mestiere e la posizione di cui vive (peraltro in modo piuttosto confortevole in genere).
Purtroppo c'è da aspettarsi che questa pressione di opinione pubblica tale da dare il coraggio necessario ai rappresentanti del popolo (che ha sempre quelli che si merita) si manifesterà solo quando le vere conseguenze del disastro ecologico si faranno tragicamente sentire, ma allora uragani, malattie, desertificazione, guerre ecc… ecc… ecc… non faranno differenza tra chi ha votato chi.

Questa prima conseguenza, dunque, riguarda un elemento di realismo e di praticabilità di questo modo di vedere, al di là della apparente indeterminatezza: guarda a qualcosa che deve svilupparsi in modo naturale, come un organismo vivente, lento, articolato secondo biodiversità, che parte dall'occupazione di nicchie per poi allargarsi e che deve anche soffrire e far percorsi tortuosi per vivere.

La seconda conseguenza invece controbilancia la prima e deriva dalla constatazione che, nel vedere quante delle occupazioni lavorative e delle attività economiche attuali sono direttamente o indirettamente distruttive, non-eque ed antiecologiche, ci troviamo a riflettere su cosa è effettivamente necessario ed utile, cosa sarebbe auspicabile abolire del tutto, cosa e come potrebbe essere fatto in modo diverso, accettabile, e come sarebbe possibile garantire lavoro e sostentamento e a quanta gente limitandosi a ciò che è compatibile.
Già in questo modo, senza modelli e prefigurazioni precise e prima ed oltre di categorie politiciste di destra e sinistra, il senso di alcuni criteri di fondo per una società equilibrata prendono forma e tale 'senso' può in qualche modo infondersi nei nostri comportamenti, nelle nostre vite.
Dovunque vogliamo stabilire il limite tra ciò che è necessario e positivo in un'ottica ecocentrica (non antropocentrica - non parliamo poi di 'occidente-centrica'), se siamo onesti capiamo facilmente che la varietà e quantità di attività economiche di ogni genere e le relative tipologie occupazionali dovrebbero enormemente ridursi e semplificarsi.
Direi che un criterio generale sia quello di lavorare solo in occupazioni che potrebbero esistere in una ipotetica società ideale eco-sociosostenibile: non si tratta di farsi un modello ideale e poi lottare per realizzarlo in modo da poter poi vivere così, al contrario, partendo da sé stessi, si comincia a realizzare questo 'modello' mentre ancora non esiste. In questo modo esso si realizzerà, come appena detto, in modo realistico, attraverso la pratica. Ma farsene un modello teorico è comunque importante, anche se poi non corrisponderà esattamente a ciò che davvero prenderà forma. Infatti non è possibile o quasi svolgere oggi qualsiasi attività lavorativa senza in qualche modo essere coinvolti nel sistema più generale antiecologico. D'altra parte è anche vero che ci sono settori della produzione (in senso ampio, quindi anche dei servizi) che, se le strutture con cui devono necessariamente essere in relazione fossero sostenibili, potrebbero esistere e svolgere in modo non distruttivo ed utile il loro lavoro, ma ce ne sono altri che hanno intrinsecamente bisogno del sistema consumistico e non potrebbero sostenersi al di fuori di esso.
Per fare un esempio possiamo facilmente comprendere come la medicina di base dovrebbe esistere in qualsiasi tipo di società (naturalmente poi è tutto da vedere come venga fatta, ma in sé stessa è imprescindibile), mentre il mondo e l'industria della moda (non parlo della produzione di tessuti ed abiti in sé, né della coltivazione creativa di un certo gusto estetico da parte del sarto nella sua piccola bottega artigianale o della singola persona che sceglie come vestirsi - in altre parole, non sto suggerendo l'adozione della divisa maoista) sono per loro natura legati ad un sistema sociale lontano anni luce dalla sostenibilità - anche se qua e là possano piccarsi di scegliere fibre naturali: non è solo questo il punto.
Dunque, se si lavora, a qualsiasi livello, nel mondo dell'abbigliamento, il punto è chiedersi, al di là del legame inevitabile di tutto con tutto, se il particolare settore in cui si svolge la propria opera potrebbe ancora operare o meno se le condizioni fossero diverse ed autenticamente sostenibili. Per spostare l'esempio su un altro settore di produzione, non si tratta di stabilire se nel 'modello' ideale potrebbero esistere i computer o no: diamo pure per certo che i computer sono utili e debbano esistere. Non si sta qui facendo una battaglia contro i mulini a vento della tecnologia in generale: la tecnologia in generale non esiste, è solo un pensiero. In realtà la tecnologia fa parte inscindibile della nostra condizione umana fin dall'origine, è l'uso strumentale e finalizzato di oggetti a fini pratici, è presente e necessaria sempre nella nostra esistenza e non ha senso pensare di farne a meno.
Ma altro è lavorare nel settore dei computer ed altro è farlo in tutta la struttura che li progetta, li costruisce, li distribuisce, li vende e soprattutto li pubblicizza al fine di creare quella mentalità per la quale un prodotto perfettamente funzionante deve essere considerato già vecchio e da sostituire dopo un anno e per la quale sempre nuovi gadget 'hi-tech' vengono presentati ed accettati come necessari mentre fino a ieri si viveva benissimo senza neanche pensare alla loro utilità o possibilità. Questa struttura ed i posti di lavoro che gli sono intrinsecamente legati non sono compatibili ed un ecofondamentalista dovrebbe tenersene lontano.
Si dirà che su questa strada le possibilità accettabili di impiego diventano molto scarse. In certa misura ciò è certamente vero, anche se questo riguarda soprattutto i lavori dipendenti dato che sono legati alle scelte delle aziende. Ma come piccole attività microimprenditoriali molto si può inventare ad esempio con il riciclaggio: per rimanere nel caso dei computer il recupero ed il commercio di apparecchi usati sarebbe un'opzione ecocompatibile quantomeno relativamente alla fase storica.
Si dirà dunque che così si crea disoccupazione, la società si impoverisce e determinati prodotti vengono a costare di più. Certamente: una società ecocompatibile, dal punto di vista di quella consumista (ovvero di coloro che al suo interno sono bene integrati - forse meno da quello delle masse sfruttate in altre regioni del mondo che a quel sistema sono necessarie) è materialmente più povera, determinati beni la cui produzione è costosa possono essere acquistati molto più di rado (ma, appunto, tutto il possibile verrebbe riciclato e ci sarebbe un gran commercio dell'usato) e la varietà e la quantità di posti di lavoro salariato sono fortemente ridimensionate. Anche per questo è sostenibile: e che lo sia viene messo al primo posto; sta qui il fatto di essere ecofondamentalisti e non genericamente 'verdi'.
Sta soprattutto nel fatto di essere disposti a pagarne il prezzo necessario e cominciare a farlo sulla propria vita, non solo a parole, e senza considerarlo un sacrificio altruistico, ma una autentica via di crescita, di emancipazione, di realizzazione personale.

Dunque, sulla strada del nostro personale boicottaggio al 'Sistema', avanziamo anche nella comprensione che un'economia sostenibile dovrebbe anche essere parecchio più semplice e che non ci sarebbe posto per qualsiasi tipo di lavoro uno voglia svolgere, né per tanto personale in alcune delle occupazioni disponibili, segnatamente quelle più tecnologicamente avanzate (o che una tecnologia avanzata presuppongano nella struttura che le sostiene).
In altre parole, se vogliamo essere coerentemente non-collaboranti, vediamo come gli impieghi accettabili nell'industria e nei servizi (tra cui in primo luogo i settori del commercio e della pubblicità) si riducano notevolmente.
Molti oggi pensano che il mondo dello spettacolo, dell'arte, della comunicazione e dell'informazione abbia la possibilità di essere (almeno in linea di principio - a parte poi la effettiva situazione attuale) un ambito eco-sociosostenibile in cui si può svolgere un lavoro positivo, sia per la società che per sé stessi, per la propria condizione esistenziale.
Senza, appunto, fare ora considerazioni (già accennate in precedenza) sulla realtà attuale della funzione che tali settori svolgono nel sistema sociale, si può ammettere che, nella sua natura, l'arte e la comunicazione siano attività sostenibili, anche considerando quel poco di tecnologia che gli può essere necessaria e fatto salvo il principio che di arte, spettacoli e, in genere, cultura non ci si dovrebbe poter arricchire, ma vivere non più che dignitosamente come chiunque altro riconoscendo già come un privilegio la possibilità di sostentarsi con ciò che è anche la propria passione .
Ma, nella pratica e vedendo le cose da un punto di vista più ampio ovvero in termini di sistema, direi che, appunto, la possibilità di vivere professionalmente di creazioni culturali, sarebbe necessariamente un privilegio per pochi in un mondo eco-sociosostenibile.
Perché a qualcuno sia possibile coltivare le proprie capacità e produzioni artistiche ed intellettuali come la principale occupazione della vita occorre che qualcun altro si occupi pressoché esclusivamente - anche per lui - delle incombenze più basilari per il sostentamento. Nelle società del passato tale privilegio è stato sempre riservato ad una ristretta elìte sia di censo che di merito e tale privilegio era possibile grazie alle condizioni di sfruttamento e di miseria in cui la maggior parte della popolazione - dedita alle produzioni strutturali - era tenuta. Se oggi tale privilegio è condiviso da un numero di persone molto maggiore (peraltro a fronte di un corrispondente aumento della popolazione mondiale) ciò è ancora legato al basso costo dei beni di base prodotti grazie ad un sistema globale del quale sono parte integrante la condizione di sfruttamento della manodopera nel Sud del mondo (il che rende questo privilegio diffuso - nel Nord - grazie a fattori socio-insostenibili) ed al largo uso delle macchine e delle economie industriali su scala di massa (il che lo rende così diffuso grazie a fattori eco-insostenibili).
Questo per quanto riguarda ciò che sta a monte della diffusione di un tale privilegio, ma c'è anche un aspetto di insostenibilità relativo alle sue conseguenze, ovvero che tanto più le professioni nello specialistico campo artistico/intellettuale diventano appetibili ed alla portata di molti giovani (come avviene oggi) e tanto più le aspettative e la mentalità diffusa si orientano verso una percezione del mondo che si allontana dalla realtà concreta della base strutturale e naturale sulla quale poggia la nostra vita nell'ambito dell'umanità e del pianeta il che porta il modello culturale verso prospettive sempre più insostenibili ecologicamente se non anche umanamente.
Di conseguenza non possono essere le occupazioni artistiche ed intellettuali come base della propria sussistenza l'attività sostenibile per la generalità degli esseri umani.

Ciò a cui necessariamente ci porta la strada di boicottaggio e rifondazione della nostra vita in senso eco-sociosostenibile nel chiederci cosa è davvero sostenibile e cosa no e che aspetto potrebbe avere una società che lo fosse realmente è inevitabilmente il fatto che una tale società si reggerebbe fondamentalmente sull'agricoltura - e non sull'agricoltura industriale odierna, ma sull'agricoltura contadina - per quanto aggiornata alle esigenze e le possibilità di oggi, che perciò preferisco chiamare neo-contadina.
Ovviamente ciò non vuol dire che tutta la popolazione dovrebbe essere composta di contadini, né solo di attività legate all'agricoltura e neppure che tutti contadini dovrebbero necessariamente essere esclusivamente contadini. Ma vuol dire certamente che la base economica, strutturale, portante della società (anche con le conseguenze sul piano culturale che ogni modello economico ha sulla forma sociale che alimenta) deve essere l'agricoltura contadina. Vuol dire certamente che la stragrande maggioranza della popolazione deve lavorare del tutto o in parte nella produzione biologica del cibo e nella cura dell'ambiente agricolo-naturale in cui vive e che le persone impiegate nelle altre professioni (che possono essere anche gli stessi contadini in altra parte del loro tempo) svolgono le loro attività in un sistema che deve sostenersi su e deve sostenere la agricoltura contadina come propria base sia nelle modalità della propria organizzazione, che nelle finalità che nei limiti del suo operare.

Dal punto di vista del boicottaggio/non-collaborazione anche, e fin da ora, la scelta di vivere sulla base economica dell'agricoltura contadina è senz'altro la più coerente e la più dirompente nei confronti del 'Sistema'.
Mentre molte altre possibili scelte 'ecologistiche' meno radicali possono essere legittime, comprensibili, utili e positive come lo è la loro condizione di continuo - auspicabilmente progressivamente ridotto - compromesso con la necessità di legami col Sistema, la scelta dell'agricoltura contadina è, almeno per la generalità delle persone ( e virtualmente per tutti) la strada maestra, la scelta centrale, la più valida e la più definitiva in termini di boicottaggio e non-collaborazione da un punto di vista ecofondamentalista.
D'altra parte anche il contadino, nella maggioranza dei casi si troverà in realtà a fare dei compromessi per poter decentemente sopravvivere nel mondo di oggi comunque dominato ed egemonizzato da un sistema omnipervasivo. Al punto che non per molti sarà oggettivamente possibile vivere davvero di sola agricoltura (anche per questo è dunque in realtà più appropriato parlare di neo-contadini). Ma, a differenza di tutte le altre occupazioni in cui si dovrà sempre distinguere fino a che punto e come ciò che si fa sia o meno compatibile con la vera sostenibilità e si sarà comunque sempre legati in modo molto più sostanziale al Sistema - almeno fino al momento in cui una autentica società sostenibile non abbia preso piede - , la condizione neo-contadina mette fin da subito le basi per un modello radicalmente altro. Il neo-contadino può fare in larga misura a meno del Sistema, vive di base in un modo che se fosse condiviso dalla stragrande maggioranza della popolazione mondiale ne risulterebbe un mondo sostenibile, crea l'inizio concreto sul quale un altro sistema economico può costruirsi, una base che potenzialmente potrebbe assorbire tutta la manodopera che dovrebbe uscire dalle altre professioni una volta che queste fossero state abbandonate, una base che garantirebbe autentica autonomia a chi, anche lavorando in altri campi volesse realmente rendersi indipendente dal Sistema, una base dalla quale anche una diversa, compatibile cultura potrebbe emergere.


Credo che il boicottaggio in questa accezione ampia che si traduce in una scelta di vita complessiva debba avere anche un altro importante risvolto che riguarda il piano dei rapporti umani, personali.
Siamo abituati dalla cultura attuale, metropolitana ed americanizzata, spogliata di ogni struttura comunitaria o tribale, a rapportarci sempre esclusivamente su un piano individuale, come se, nel momento in cui ci incontriamo direttamente, fossimo solo quella singola persona che ci appare di fronte che consideriamo indipendentemente da quale sia il suo ruolo nel mondo. A prescindere dall'effetto concreto del suo esserci, ciò che fa e che è - apparentemente - al di fuori del rapporto immediato che ha con noi o che ci interessa solo limitatamente a quanto di questo possa o meno esserci utile.
Ci porta a questo, oltre alla caduta delle appartenenze identitarie comunitarie, anche quella sorta di 'apertura' alla comunicazione che si esprime nei modi e 'buone maniere' di socializzare cosiddetti 'urbani', parola che appunto denota il suo legame con la dimensione cittadina dove i contatti sociali sono continui, ma dove al tempo stesso manca una autentica base comune profonda, il che sta alla base di una parallela costante e latente possibilità di solitudine.
Fatte salve, dunque, le differenze di 'casta' (nella versione in cui esistono anche da noi) si tende a 'fare bella figura' ed entrare in comunicazione con tutte le persone con cui ne capiti l'occasione, sia sul piano personale, che su quello commerciale e quant'altro secondo i casi, senza normalmente guardare a di chi si tratti finché non si dovesse eventualmente creare qualche problema che ci tocchi direttamente. E' un po' il principio di “pecunia non olet” o anche di “sia chi sia, a me non ha fatto nulla di male” o addirittura “sarà pure uno stronzo, ma ad uscirci una sera è un tipo brillante e simpatico” oppure “ è una vipera, ma è sempre una bella figa” e via di questo passo…
In fin dei conti, se con il nostro lavoro o con i nostri comportamenti privati danneggiamo il mondo, sia nel primo caso, collaborando attivamente alle distruzioni da parte del Sistema, magari anche con ruoli attivi di responsabilità, sia, nel secondo, diffondendo tra le persone comportamenti che poi, una volta subìti, si riproducono alimentando antagonismo e sfiducia reciproci generalizzati, ma poi possiamo lo stesso godere della nostra rete di rapporti interpersonali basta solo che siamo simpatici e gentili nell'immediato, ciò che è il nostro autentico ruolo nel mondo ci è pressoché irrilevante qualsiasi cosa facciamo, almeno finché non dovessimo incorrere nelle maglie della legge.
Finché ancora esistevano insiemi sociali limitati con la necessità di una forte coesione interna e forti valori riconosciuti e condivisi da tutti - le società/culture tradizionali - il controllo comunitario era tale da impedire una cosa del genere. Tutti potevano vedere ciò che ognuno faceva e le conseguenze di ciò ed il giudizio era determinato da una necessaria e necessariamente comune visione del mondo e così lo erano le conseguenze. Non ce se la cavava tanto facilmente essendo 'urbani' e brillanti, belli o 'a la page'.
Oggi non è più così e, come in tutte le cose, ciò ha i suoi vantaggi e svantaggi.
Però non si dovrebbe perdere l'occasione di riconoscere un altro importantissimo piano dove il boicottaggio come leva per contribuire a cambiare il mondo senza violenza, ma in modo decisamente radicale e a partire da sé stessi, può essere efficacemente esercitato.
Come in tutte le altre applicazioni del boicottaggio, si tratta di qualcosa che non avrà effetti molto rilevanti se non è praticato coerentemente da un numero consistente di persone, ma altrettanto come negli altri casi, non abbiamo fretta, possiamo partire da noi stessi e la cosa ci migliorerà comunque la vita alleggerendocela da alcuni agenti inquinanti.
Ciò che sto dicendo è che il boicottaggio, in un'ottica coerentemente ecofondamentalista, dovrebbe essere esteso sul piano dei rapporti interpersonali da quelli commerciali a quelli privati. Professare certe idee, ma poi non mancare di ottenere il vantaggio ed il piacere che può derivare dalla frequentazione di persone che vivono operando nei fatti sistematicamente e strutturalmente per il loro contrario non è accettabile: è una farsa, solo una moda o un atteggiamento con il quale finisce che la stessa professione di idee diventa merce di scambio nel mercato delle relazioni personali in cambio delle gratificazioni che se possono trarre.
Sto dicendo che, se conosciamo o entriamo in contatto con persone che per il loro lavoro o il loro ruolo attivo nella società hanno una parte significativa in attività che sfruttano popoli del Sud del mondo o che incrementano i disastri ambientali - e sto parlando di ruoli non vagamente collaterali, perché allora non si salverebbe più nessuno, ma rilevanti e di responsabilità fattive concrete, non di opinioni, che, come anche quelle di segno contrario, di per sé, lasciano il tempo che trovano - per quanto interessanti, intelligenti, simpatiche, piacevoli, gentili, educate, generose, brillanti, belle e perfino sessualmente disponibili queste persone siano, dovremmo evitare di intrattenerci una relazione stretta.
Voglio sottolineare che questo non è un fatto che abbia a che fare con le simpatie personali ma con i ruoli oggettivi: ci possono essere persone realmente piacevoli e perfino in buona fede che svolgono un ruolo oggettivamente disastroso sul pianeta e persone molto meno interessanti che vivono in modo ecocompatibile, ma anche così questo discorso non cambia. E non vale solo per comportamenti che riguardino effetti dannosi sul piano socioeconomico ed ecologico su vasta scala, ma anche per individui che si comportino in modo gravemente scorretto e disonesto sul piano dei rapporti umani tra persone.
Come per le altre forme di boicottaggio questa deve partire in primo luogo dalla propria forza, di rinunciare all'apparente e superficiale vantaggio personale nel collaborare con questi comportamenti: al di là dell'iniziale difficoltà la nostra vita ne sarà liberata ed alleggerita e fattori dannosi che inquinano in vario modo l'ambiente umano e non in cui viviamo cominceranno a perdere un poco della base sulla quale si reggono.
Tutti abbiamo bisogno di riscontro e conferma da parte dei nostri simili sui vari piani delle interazioni umane ed il trovare sempre più spesso persone che prendono le distanze da noi a causa del nostro comportamento e che per questo ci isolano sarebbe una sanzione ed una conseguenza molto più efficace del carcere (anche perché non ha confini, né in orizzontale nello spazio, né in verticale nei vari livelli di relazione). Era infatti quella che ha sempre funzionato molto bene all'interno delle comunità tribali in cui, infatti, del carcere non c'era neppure bisogno.
Ciò che in una società complessa sarebbe fuori luogo e pericoloso tradurre in leggi, mutuandolo da forme sociali completamente diverse in quanto basate sull'interazione diretta tra le persone, può essere applicato però dagli individui nella molteplicità dei casi particolari nel loro quotidiano. Non possiamo mettere al bando per legge delle persone per cose che non è possibile - in questo contesto o del tutto secondo i casi - definire come reato, ma ognuno di noi può portare la coerenza del proprio rifiuto di determinati comportamenti distruttivi all'interno della propria sfera personale e relazionale.
E attenzione: è molto importante il punto che il vero oggetto del boicottaggio sono i comportamenti, non le persone. Le persone solo nella misura e fintanto che sono portatrici e agenti di tali comportamenti.
In realtà ognuno di noi è un processo vivente in continua trasformazione e pertanto non può essere unilateralmente identificato con un suo comportamento per quanto caratteristico e grave (anche se in casi estremi va messo comunque in condizioni di non nuocere). La non-collaborazione, nel senso dell'ostracismo, non deve arrivare all'estremo ideologico e inutile di rifiutare sempre e in ogni caso qualsivoglia contatto o comunicazione con una persona - la quale peraltro può essere da un punto di vista individuale anche brava ed onesta. Si tratta essenzialmente di non instaurarci un rapporto di frequentazione come normalmente tra amici/conoscenti, ma di limitare i contatti all'incontro casuale e alla formalità o altrimenti non mancare di sottolineare la propria disapprovazione per un certo suo comportamento: non c'è bisogno e spesso non è neanche bene mostrare avversione o affrontare polemicamente il punto di discordia, ma è opportuno che la persona in questione avverta la ragione della distanza così come anche un rispetto di fondo per la sua vicenda umana quale che sia pur all'interno del chiaro e fermo permanere di una certa distanza per una certa ragione.
Qualcosa di simile a ciò che faceva Gandhi, il quale portava avanti con fermezza incrollabile le sue campagne di non-collaborazione contro i governatori britannici, ma con questi parlava, se necessario, con spirito di comprensione reciproca, per spiegargli perché non poteva in alcun modo accettare una collaborazione con loro neanche indiretta. Certo, non è che - come fanno molti paladini di ideali massmediatici e parlamentari oggi che “non siamo più nemici, ma solo avversari” (o forse piuttosto complici?) - ci si scannava a parole sotto i riflettori e poi ci usciva a cena insieme appena finito il dibattito.
Portare avanti una tale coerenza nella propria vita relazionale è certamente difficile, specialmente in un contesto cittadino e parzialmente inserito nel 'sistema' dal punto di vista lavorativo. Una prova di più che la condizione autentica per una scelta ecofondamentalista è quella neo-contadina, in cui è strutturalmente improbabile anche solo entrare in contatto con coloro che vivono in modo intrinsecamente legato ai meccanismi distruttivi dell'economia e della cultura oggi imperanti e nella quale comunque, se pure capitasse di rapportarvisi, lo si farebbe a partire da una condizione altra: non esattamente come uno che, in fondo, sta sulla loro stessa barca.
D'altra parte, le persone che vivono in contesti più interni alla maggior parte della società come questa è oggi, hanno la possibilità di rendere molto più incisiva la loro pratica del 'boicottaggio personale', anzi, forse proprio su questo terreno la funzione di critica, di stimolo alla riflessione, all'autocritica e, auspicabilmente, la funzione trasformativa della non-collaborazione potrebbe avere l'impatto più forte, dato che mai come nella vita di città le relazioni sociali sono tutto.
Questo per quanto riguarda l'applicazione della non-collaborazione al livello dei rapporti privati umani (che in buona sostanza non è poi tanto diverso da “non fare agli altri - ma neppure con gli altri - quello che non vorresti fosse fatto a te”). Ma anche sul piano di quelli personali commerciali, potrebbero essere significative delle campagne di boicottaggio personale in cui, ad esempio, i gestori di vari tipi di servizi, potrebbero rifiutare come clienti (non di farle entrare nel negozio, ma di vendergli alcunché - non è disprezzo, è non-collaborazione) le persone portatrici di determinati comportamenti non solo se questi vengono praticati nel proprio esercizio, ma anche fuori (per fare un esempio, per esprimere il proprio dissenso verso la presenza di una base militare americana, negozianti, gestori di locali pubblici potrebbero rifiutarsi di servire i soldati U.S.A. oppure, contro la costruzione di una linea ad alta velocità, potrebbero fare lo stesso con gli operai ed i tecnici che vi lavorano ecc…) .


NOTE:
Ma il boicottaggio non è solo non comprare: è anche non-collaborazione in molte altre forme e che può essere praticata in vari gradi fino a farne una linea da seguire come scelta di vita complessiva, da portare anche sul piano personale, nelle proprie scelte lavorative e nei propri rapporti personali.



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