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LAVORO SALARIATO

(versione PDF)

“Separare il lavoro dalle altre attività della vita ed assoggettarlo alle leggi del mercato significava annullare tutte le forme organiche di esistenza e sostituirle con un tipo diverso di organizzazione, atomistico e individualistico.
Un simile schema distruttivo era ottimamente sostenuto dall'applicazione del principio della libertà di contratto. In pratica questo significava che le organizzazioni non contrattuali della parentela, del vicinato, della professione e del credo dovevano essere liquidate poiché richiedevano l'obbedienza dell'individuo limitandone così la libertà. Rappresentare questo come un principio di non interferenza, così come i liberali erano soliti fare, era semplicemente l'espressione di un pregiudizio incallito a favore di un tipo preciso di interferenza e cioè tale da distruggere i rapporti non contrattuali tra gli individui e da impedirne la spontanea ricostituzione.
Questo effetto dell'istituzione di un mercato del lavoro è assai evidente nelle regioni coloniali di oggi. Gli indigeni sono costretti a sostentarsi vendendo il loro lavoro. A questo scopo debbono essere distrutte tutte le istituzioni tradizionali e deve esserne impedita la ricostituzione, poiché di regola l'individuo nella società primitiva non è minacciato dalla fame a meno che la comunità nel suo insieme non si trovi in una situazione di questo tipo. Nel sistema del kraal presso i Kaffir, ad esempio, “la miseria è impossibile: chiunque abbia bisogno di assistenza la riceve senza alcuna riserva”. Nessun kwakiutl “ha mai corso il rischio di soffrire la fame”. “Non vi è fame nelle società che vivono sul margine della sussistenza”. Il principio della libertà dalla necessità è stato ugualmente riconosciuto nella comunità del villaggio indiano e, potremmo aggiungere, in quasi ogni tipo di organizzazione sociale fino circa all'inizio del sedicesimo secolo in Europa, quando le moderne idee sui poveri espresse dall'umanista Vives furono sostenute alla Sorbona. E' l'assenza della minaccia della fame individuale che rende la società primitiva in un certo senso più umana dell'economia di mercato ed allo stesso tempo meno economica.
Per ironia il contributo iniziale dell'uomo bianco al mondo dell'uomo di colore è stato soprattutto quello di introdurlo all'abitudine del flagello della fame. I colonizzatori possono decidere di tagliare gli alberi del pane per creare una carenza artificiale di cibo o possono imporre una tassa sulla capanna dell'indigeno per costringerlo a barattare il suo lavoro. (….)
Ciò che l'uomo bianco talvolta pratica ancora oggi in regioni remote, e cioè la distruzione di strutture sociali per estrarne l'elemento lavoro, fu compiuto nel diciottesimo secolo da uomini bianchi nei confronti di popolazioni bianche per fini simili. (….)
Per quanto si riconoscesse che vi era un livello consuetudinario al di sotto del quale nessun salario poteva scendere, questa limitazione veniva ritenuta efficace soltanto se il lavoratore era costretto alla scelta tra l'essere lasciato senza cibo e l'offrire il suo lavoro sul mercato per il prezzo che da esso avrebbe potuto ricavare. Questo spiega tra l'altro un'omissione altrimenti inesplicabile degli economisti classici e cioè perché soltanto la minaccia della fame e non anche l'allettamento di alti salari era ritenuta in grado di creare un mercato del lavoro funzionate.. Anche qui l'esperienza coloniale ha confermato le loro posizioni. Infatti più alti sono i salari, minore è la spinta all'attività per l'indigeno che diversamente dall'uomo bianco non era costretto dai suoi standards culturali a guadagnare quanto più denaro possibile. L'analogia era tanto più sorprendente in quanto anche i primi operai odiavano la fabbrica dove si sentivano degradati e torturati al pari degli indigeni che spesso si rassegnavano a lavorare alla nostra maniera soltanto quando erano minacciati di punizione corporale se non anche di mutilazione fisica.
I manifatturieri di Lione del diciottesimo secolo sostenevano la necessità di salari bassi principalmente per ragioni sociali. Soltanto un operaio sopraffatto dal lavoro e calpestato, essi sostenevano, avrebbe fatto a meno di associarsi con i suoi compagni e di sfuggire alla condizione di servitù personale sotto la quale poteva essere costretto a fare tutto quanto il suo padrone gli richiedeva. (….)
Lo stadio finale tuttavia fu raggiunto con l'applicazione della “punizione naturale”, la fame: per amministrarla era necessario liquidare la società organica che si rifiutava di permettere che l'individuo fosse abbandonato ad essa.”




Da “La grande trasformazione” (ed. Einaudi) di Karl Polanyi, 1944


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